"Errare humanum est"

Difficile non accorgersi del mezzo passo falso in cui i Porcupine Tree erano inciampati con "Deadwing". Difficile guardare a quelle "Lazarus" e "Shallow" senza storcere il naso. Steve Wilson l'ha capito, e stavolta ci regala un disco "più duro, denso ed intenso" e soprattutto "cercando di non commettere gli stessi errori del passato".

Un concept, “Fear of a blank planet” non racconta una storia, ma tante storie con un tema in comune: l'evoluzione mediatica e tecnologica a discapito della crescita e, più nello specifico, della capacità di concentrazione dei giovani d'oggi. Wilson lo spiega bene anche in una recente intervista.

E dunque, non possiamo parlare di cambio di rotta, ma semplicemente di “repulisti”: il disco infatti è da intendere come un’unica suite di quasi 50 minuti, progressive sin dalle intenzioni, priva non solo di sonorità pop-appeal, ma anche di ghirigori e abbellimenti riempitivi, il tutto per consegnarci appunto la trascinante musica dei Porcupine Tree ridotta all’essenza, come l’avevamo da tempo conosciuta, insomma. Ritroveremo un Wilson duro, svizzero e onirico alla chitarra, delle voci atmosferiche, introspettive e abbastanza effettate, un Colin Edwin in una versione abbastanza insolita col suo basso distorto, una batteria che quasi la fa da padrona sul resto, con un Gavin Harrison in stato di grazia, che qui con naturalezza si riconferma tra i migliori sulla piazza, e infine un Barbieri indispensabile che ben condisce il tutto con elettronica q.b.

Il pezzo principe dell’album è la suite “Anesthetize” che non va per nulla presa con le molle, anzi è scorrevole e fluida in tutti i suoi 17 minuti, e non pecca mai di ripetitività o di dilatazioni varie, semmai i più attenti o pignoli potranno vederci delle quasi “citazioni” del prog moderno, ma il risultato finale è abbastanza piacevole. La title track introduttiva è il lato meno atmosferico dei Porcupine Tree, svelta e sostenuta, quasi a prepararci all’ascolto del seguito; le vere emozioni, tipiche di Wilson, ce le regalano due pezzi dolci e malinconici: “My Ashes” e “Sentimental”, dove la voce, a tratti cupa, a tratti più pulita, è deliziosamente accompagnata dagli arpeggi acustici.

Il momento più heavy del disco è presente in “Way out of here”, che esplode, dopo una delicata introduzione radiosa, in uno sfogo che riesce benissimo a riassumere il meglio del metal da un lato e del prog dall’altro, ben discostandosi dalle banalità dell’uno e dagli eccessi dell’altro; inoltre in questo brano vi è la presenza di Robert Fripp ai soundscapes, e scusate se è poco. La conclusiva “Sleep togheter” è un po’ sottotono rispetto al resto del disco, e credo che un ascolto alla lunga possa solo accrescere questo senso di fiacchezza che la traccia rileva, specie nella ripetitività degli arrangiamenti che non riescono a ricreare un’atmosfera degna del gruppo.

Dopo vari ascolti, si evince che “Fear of a blank planet” è sicuramente un’ulteriore conferma della maturità della band, e ci consente di apprezzare, oltre che la bravura tecnica (soprattutto di Wilson e Harrison) anche e soprattutto i gusti compositivi e degli arrangiamenti.

Forse l’elemento più accattivante dei Porcupine Tree è dato dal connubio di atmosfere malinconiche e solari, e difatti anche lo sguardo glaciale del bambino in copertina sembra guardare timoroso e speranzoso al futuro.

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