I Porcupine Tree mi piacquero fin da subito, dal primo ascolto di "The Sky Moves Sydeways". Ricordo che provai una sensazione di benessere, subito seguita da una speranza. Queste sensazioni si fecero più intense quando aggiunsi l'ascolto del vecchio "On the Sunday of life" e del live "Coma Divine" (1997), che considererei uno spartiacque tra il primo periodo del gruppo e la sua "evoluzione" successiva, chiamiamola così. In generale risultò chiaro che le intuizioni sonore di Steven Wilson erano stupendamente fresche e coinvolgenti, complice una formula musicale del tutto innovativa e molto moderna, altro che brutta copia di vecchi gruppi progressive.

L'albero del porcospino si reggeva su tre semplici elementi ben dosati fra loro: una sorta di rock psichedelico dalle tinte ambient; accattivanti e suggestive melodie pop; spunti elettronici misti a linee di basso quasi in stile trance-music. Man mano è avvenuto il famoso cambio di rotta, vuoi per l'esaurirsi delle idee, vuoi per una necessità di cambiamento, vuoi anche per tentare una maggiore visibilità commerciale. Fatto sta che, dopo "Lightbulb sun", il gruppo abbracciò sempre più sonorità marcatamente metal, partorendo così una sorta di space rock dove le tinte pesanti erano onnipresenti. E da questo periodo, a mio parere, è iniziata una parabola discendente. Soprattutto dal punto di vista della freschezza della musica: "In absentia" potenzialmente poteva essere un bel botto commerciale, ma non lo fu. Di sicuro resta un disco gradevole, ma che nella seconda parte si perde un po' per strada, vagando nei meandri di canzoni troppo lunghe e inconcludenti. Di "Deadwing" non ne parliamo neanche, si salvano giusto un paio di brani e la copertina. Ora è arrivato l'ultimo protagonista di quella che spero resterà una triade, mi dispiace dirlo.

Quando misi su il disco, ero ancora ipnotizzato dagli occhioni del bambino in copertina: lui impaurito per questo mondo bianco e vuoto, io principalmente per l'ascolto che mi apprestavo a fare. Ascolto che fluisce comunque senza inciampare, ma anche senza particolari picchi di sorta. Allora ragiono un po' e mi chiedo: cos'è che non è andato? I ragazzi potrebbero e saprebbero fare di gran lunga meglio. Forse non è colpa loro. Forse è un problema mio. Probabilmente bisogna solo abituarsi ai nuovi Porcupine Tree. Ma è più forte di me: le canzoni sembrano scorrere in maniera anonima, solo raramente la scena è illuminata da qualche buona intuizione. E quando tutto sembra aver preso la direzione giusta, ecco di nuovo quelle schitarrate pesanti, che continuano per almeno altri due minuti, così, banali. Mi ricordo che da qualche parte Wilson sfodera un piccolo gioiellino di assolo chitarristico, ma il momento dura poco: la musica torna subito ad essere poco efficace, e mi sembra di risentire un passaggio di una canzone di "Deadwing".

Ovviamente deve essere chiaro che il disco è suonato e confezionato in maniera impeccabile, anzi questo è probabilmente l'album in cui il nuovo sound cercato da Wilson nei due dischi precedenti è pienamente raggiunto: per questo la mia sensazione è quella di una musica troppo "manieristica", se capite cosa intendo. Tutto viene svolto in maniera certosina: gli arpeggi caldi di Wilson, il basso ipnotico di Edwin, i synth magici di Barbieri, le percussioni assolutamente perfette di Harrison. Ma a me quegli arpeggi mi fanno sbadigliare un po', a dire il vero, quel basso mi sembra un po' rincoglionito, quei synth mi fanno innervosire. Perfino quel metronomo di Harrison comincia a starmi sulle palle: non c'è proprio paragone con la fantasia del vecchio Chris Maitland. Anche le parti cantate sono gradevoli, ma forse troppo melodiche, a tratti quasi zuccherose: ma non era Wilson quello che attaccava gli artisti che facevano soldi con canzoni semplici e orecchiabili ( "Four chords that made a million") ? Comunque, ormai la formula è questa: pop gradevole e schitarrate metal perfettamente incastrate al resto. Anche le rare invenzioni "progressive" risentono comunque dell'approccio "pesante" e manierista, e sembrano non spiccare mai il volo. Morale della favola: anche "Fear of a blank planet" risulta freddo e distante. Allora le cose sono due, cari miei: o Wilson il cambiamento di sonorità lo fa anche col cuore e non solo con la testa, oppure qui bisogna levare batteria e burattini seduta stante.

Posso solo concludere dicendo che lo scorso settembre, quando vidi a Roma il loro concerto, sorpresero il pubblico suonando in anteprima materiale che, dissero: "Finirà nel nuovo album. Lo facciamo per Roma, che è un pubblico che amiamo molto". Delirio tutt'intorno! E grandi elogi a Wilson e al simpatico secondo chitarrista. Quando iniziarono a suonare mi dissi: "Eccola là! Sembra di sentire Deadwing...". Eppure poco a poco mi feci travolgere, e gradii molto, perché in quell'occasione sentii anche il cuore. Che forse è la cosa che amo di più dei Porcupine Tree. Che dal vivo, ricordiamolo, sono strepitosi. Certo che se Wilson si mettesse almeno un paio di pantofole.....


 

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