Correva l'anno 1992, quando nella foga psichedelica di VOYAGE 34, Steven Wilson si chiedeva: "Is this trip really necessary?". Allora, il viaggio in questione era quello della psiche sotto gli effetti della droga, oggi potremmo essere noi a porre questa domanda a mister Porcupine Tree, chiedendogli se il viaggio di nome Fear of the Blank Planet sia davvero necessario. Il giudizio potrebbe essere estremamente diverso a seconda dei punti di vista.
Chi dovesse conoscere adesso i PT, ne rimarrebbe comunque piacevolmente stupito, mentre chi li ha amati sin dai loro esordi, potrebbe trovare il loro ultimo lavoro sostanzialmente inutile e poco emozionante
La band britannica ha rappresentato per oltre un decennio un punto di riferimento per tantissimi appassionati di psichedelia, in un mix di straordinaria originalità e di grande trasporto emotivo. Ad un certo punto però, i PT hanno progressivamente imboccato una strada diversa, meno accidentata e più sicura, avvicinandosi ai gusti di ascoltatori meno attenti alla spinta emotiva degli ascolti musicali e più avvezzi a valutarne i tecnicismi e la durezza del sound. Fear of the Blank Planet è certamente un album molto più omogeneo e nel complesso sensato dei due che lo hanno preceduto, ben suonato e come al solito impeccabilmente prodotto, ma con ogni probabilità non lascerà ai posteri tracce particolarmente memorabili, specie per chi ha amato e "consumato" pietre miliari come Singify, Up The Downstairs o Stupid Dreams, solo per citarne alcune.

Si comincia con Fear Of A Blank Planet, abbastanza anonima e piatta, che induce allo spontaneo accostamento con la title track del precedente album Deadwing, anche questa piena di fronzoli e incapace di comunicare emozione alcuna. E' a questo punto che arriva la parte più interessante del disco, quella centrale che inizia con la spendida My Ashes, delicata perla a metà strada fra i vecchi PT e i Blackfield, con un arrangiamento di archi davvero sublime. Ed ecco Anesthetize,che inizia richiamando atmosfere alla Tool, in un vorticoso intro sapientemente condotto dalla delicata (stavolta) batteria di Gavin Harrison e le lisergiche architetture chitarristiche di Wilson. Il pezzo cresce d'intensità, assumendo sempre più i connotati progressive e arrivando a colorarsi di tinte vagamente metal alle quali i porcospini ci hanno ormai abituati, per poi ridiscendere nel finale verso atmosfere deciamente più floydiane. Anche qui verrebbe da chiedersi se i richiami metallari della parte centrale, non siano un tantino ruffiani, pensati per accapparrasi le simpatie degli estimatori dell'ultima ora, sensazione già perpecita in episodi passati come Arriving somewhere...
Il resto dell'album è costituito dalla dolce Sentimental, nella quale pianoforte e voce dominano la scena e che si chiude con un palese richiamo alla Inabsentiana Trains. Way Out Of Here è certamente valida nelle intenzioni iniziali, con una interessante sezione ritmica, ma e ci risiamo ancora una volta, si perde in poco efficaci e comprensibili schitarrate heavy. Evitabili. L'ultimo episodio dell'album è Sleep Together, nella quale emerge la sconfinata ammirazione di Wilson per quel genio di TRent Reznor e bisogna ammettere che nonostante di Reznor ce ne sia uno solo, il pezzo è ben congegnato e accattivante dal punto di vista della ricerca sonora. 
Positiva è di sicuro la ritrovata vitalità delle tastiere di Richard Barbieri, che come non accedeva da un pò, è tornato ad avere un ruolo centrale e in alcuni casi a "condurre" il cammino del porcospino. L'impressione è che la fase di transizione dei PT iniziata con In Absentia sia giunta al termine e la band inglese abbia trovato un suo percorso, non sempre del tutto convincente, ma che forse, nel prossimo capitolo potrebbe assumere connotati più delineati e definitivi. Un giorno forse potremo dire che ogni tappa del viaggio sarà stata necessaria. Forse.

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