Ma il rock è veramente morto?
Ebbene Signori, se qualcuno di voi la pensa così, a mio modesto parere si sbaglia. E' vero, il rock com'era una volta non c'è più, e mai lo rivedremo; ma forse è giusto così, perchè tutto nel corso della vita ha un'evoluzione, e quando si parla di correnti artistiche, di evoluzioni possono essercene molte, tutte diverse, tutte alla ricerca, non per forza sperimentale ma talvolta fisiologica, di un nuovo archetipo, anch'esso a sua volta in continua evoluzione. Ecco, forse è proprio questo che è successo al rock: si è sfilacciato, e ha deviato per altre vie il suo percorso; e una di queste vie è senza dubbio quella dello stoner-rock, quella percorsa nel disco in questione, 'Songs For The Deaf', terzo lavoro dei Queens Of The Stone Age, risalente all'anno 2002.
Un disco stoner in tutti i sensi: pezzi dalle sonorità ruvide e sporche, dove basso e batteria si danno un gran daffare per tenere costantemente altissimo il ritmo, scandendo un ingombrante sottofondo, talvolta coinvolgentemente ripetitivo, talvolta variato ed arricchito da brevi ma risaltanti assoli di chitarra, talvolta troncato sorprendentemente di netto per poi ripartire più forte di prima, come nel folle vortice trainante di "A Song For The Dead" dove la voce lenta e trascinata ci introduce ad una rumorosa e sfrenata danza che sembra non voler finire; una musica che fa sudare la mente, che la tiene impegnata impedendo ai pensieri di scorrere normalmente.
I pezzi vengono uno dopo l'altro in un susseguirsi ininterrotto di note spesso distorte che accompagnano testi scarni, ridotti all'essenziale: mai lunghi ragionamenti, mai fiumi di parole, solo poche frasi semplici, pronunciate lentamente e placidamente, ma che portano con sè un immenso carico di rabbia, rancore e quant'altro ("...I can go with the flow, but don't say it doesn't matter anymore..."); fa quasi rabbrividire, a pensarci, la falsa tranquillità con cui Josh Homme ci annuncia che il cielo sta cadendo ("The Sky Is Fallin'"). Oppure abbiamo frasi altrettanto semplici ma urlate a gran voce, come nel primo brano del disco, un intro messo lì apposta per far capire subito a cosa si va incontro a voler ascoltare 'Songs For The Deaf': privo di sbavature, organico, che cattura l'attenzione fin dal primo ascolto, e che non lascia che pochi, brevi e insignificanti momenti di tregua. Tutto l'album, dall'inizio alla fine, è come una grande, immensa piacevole fatica, quasi un lungo terremoto musicale inspiegabilmente capace di angosciare, ma anche di rilassare, e che una volta terminato lascia aperti dei quesiti, una curiosità recondita, come la sensazione di aver tralasciato qualcosa di importante, di non esser riusciti ad individuare la giusta chiave di lettura, e che il significato più profondo del tutto giaccia ancora lì, nell'universo spoglio e polveroso che "Songs For The Deaf" ha disegnato nella nostra testa, sfidandoci a riascoltarlo di nuovo. Ma un disco rock non ha per forza bisogno di spiegazioni, nè a mio parere si propone di darle: non si parla mai di verità assolute, solo di verità sparate lì così come stanno nel cervello dell'artista; idee e sensazioni anche momentanee che non si rinnegano mai, e che se vogliamo usare un'espressione che non rende giustizia, restano spesso, di per sè, fine a se stesse; che poi alcuni capolavori del rock abbiano segnato epoche, questo è un altro discorso.
'Songs For The Deaf' è un disco di questo tipo: non si propone di svelare il senso della vita, nulla di trascendentale; è collaudato per comunicare determinate sensazioni, per suscitare dubbi, dando sempre spazio, come è giusto ed inevitabile, alle più svariate e soggettive interpretazioni.
E questo è rock, secondo me.
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