Messi da parte i languori acustici del fortunatissimo "Automatic For The People", nel 1994 i R.E.M. decisero che era giunto il momento di tirare fuori un po' di sana grinta e mandare in distorsione le chitarre. Il risultato è il loro disco migliore degli anni '90 e una delle punte di diamante della discografia: "Monster". Un disco arrabbiato, ma al tempo stesso giocoso e ammiccante, luminoso e tetro. Esso è, prima di tutto, una sorta di concept album sull'identità e sulla natura della celebrità.

A confermarlo è la splendida apertura "What's The Frequency, Kenneth?", in cui il protagonista è letteralmente ossessionato dal tentativo di comprendere il più possibile la generazione dei giovani, analizzando tutto quello che viene sputato fuori dai mass media; non è un caso se al termine della canzone egli dichiarerà di non aver capito assolutamente nulla. Una sottile ed ironica critica al tentativo di inscatolare la famigerata "generazione x" degli anni 90, certo, ma anche un brano in cui per la prima volta figurano chitarre ruggenti e tremolanti; le stesse che ci accolgono in "Crush With Eyeliner". Il tremolo della chitarra di Buck è onnipresente e lampeggia come non mai, mentre Stipe si fa accompagnare dall'amico Thurston Moore dei Sonic Youth (c'era bisogno di specificare?) in una canzone dall'identità sorniona.

La successiva "King Of Comedy" è spettacolare: su una base al limite tra la dance, l'industrial e il grunge aleggia una voce robotica che si diverte a prendere in giro il bisogno di attenzioni e di gossip delle celebrità, proprio nel periodo in cui i R.E.M. erano ormai catapultati nell'orbita dello stardom: nel ritornello Stipe ringhia "Non sono la vostra televisione. Non sono la vostra rivista. Non sono un bene di consumo", dimostrando sarcasticamente la propria integrità.

Dopo la debole "I Don't Sleep I Dream" (uno dei brani deboli del lotto, penalizzato da un odioso falsetto nel refrain) arriva la giocosa "Star 69", in cui risaltano soprattutto il delay della voce e i veloci accordi di chitarra; "Strange Currencies" assomiglia in maniera impressionante a "Everybody Hurts", al punto da esserne probabilmente una rilettura in chiave "Monster", non risultando però altrettanto bella.

"Tongue" e "Bang And Blame" sono due episodi minori, seguiti dall'inquietante "I Took Your Name" e da uno dei brani migliori dell'intero disco: "Let Me In". Esso è una toccante e sentita dedica all'amico scomparso Kurt Cobain e fin dalle prime note suona come un macigno. Le chitarre si fanno rugginose, accompagnate da un organetto e dall'interpretazione commovente di Michael, che con immagini estremamente evocative sfoga tutto il suo dolore ed esprime un fortissimo senso di inadeguatezza (bellissima la frase "I've got tar on my feet and I can't see / all the birds look down and laugh at me") che spesso ne rende difficile l'ascolto. Ma non appena la tristezza di questa dedica sfuma dolcemente veniamo travolti dal ronzio di "Circus Envy", velenosissima e acida raffigurazione dell'invidia e della gelosia: la voce si fa distante e minacciosa, l'atmosfera odiosa e autodistruttiva mentre la chitarra frigge letteralmente per tutta la durata di una delle canzoni più rumorose e cupe dell'intera discografia. Fantastica. Esaurita anche la rabbia, non resta che concludere il disco con la sinistra "You", a metà tra una dedica d'amore sincero e una malsana ossessione verso qualcuno; il tono della voce è sempre molto inquietante e la parte strumentale mette quasi a disagio, fino a sfociare nella meccanica ripetizione della parola "you" per un finale da brividi.

"Monster" è un disco cangiante ed elettrico, spesso sottovalutato a favore di altri episodi della discografia (su tutti "Out Of Time") al quale va senz'altro riconosciuto il coraggio della band di mettersi completamente in gioco, specialmente quando il risultato finale è di questi livelli.

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