“Dear readers, my apologies.
I’m drifting in and out of sleep.
Long silence presents the tragedies of love.
Note the age.
Get afraid.
The surface hazy with attendant thoughts.
A lazy eye metaphor on the rocks.”

(Sad Professor)

La poesia.
Ancora una volta.
Bellissima ed ermetica.
Per la prima volta nella discografia dei R.E.M. appaiono nero su bianco, schiacciate dentro un libretto, le parole che forgiano le canzoni di Micheal Stipe.

Questo è l’album più sperimentale dei R.E.M., di certo quello con più elettronica e voglia di nuovo.

Per necessità: bisognava in qualche modo non far sentire la mancanza dei tamburi di Bill Berry.
Per volontà: bisognava portare il suond della band verso nuovi territori, accaparrarsi la stima anche di altre persone ed evitare l’implosione che stava rischiando seriamente di far chiudere bottega al gruppo.
Quello che nasce come un disco di transizione, destinato a “traghettare la band” verso un territorio magari più calmo e sicuro diventa esso stesso un faro incandescente.

L’album è pieno di smog, stress, ritmi di vita infernali.
È l’album metropolitano della band di Athens.
Il ventunesimo secolo che invade la musica rock e la annebbia di gas tossici: ecco spiegati i giri di basso lenti, tristi, profondi, a rispecchiare la voce di Stipe e i suoi testi disperati.

Necessita di un lungo periodo di digestione, soprattutto per la gente che si era appena affezionata ad Electrolite e alle “nuove avventure in alta fedeltà”.
Da quello che era un nucleo sull’orlo della fine più malinconica nasce un piccolo capolavoro che fa riscoprire alle riviste di musica di tutto il mondo che c’è un gruppo che, quando vuole veramente, sa prendere il centro della scena come pochi altri al mondo.

Disco pieno di solitudine, datato 1998.
L’ultima grande cosa da ricordare nella discografia dei R.E.M.
Per il momento.

Carico i commenti... con calma