Dalle copertine dei suoi primi due album.

La ragazza sensuale, smaliziata, col basco e con un sigaro stretto tra le labbra. Un’aria beatnik. Lunghi capelli biondi e color ambra, pelle liscia, eburnea, lineamenti affusolati, occhi sfuggenti.

Due innamorati, maturi, nella penombra, all’angolo di una strada, l’uno difronte all’altra, complementari: un bianco e nero essenziale. Spiragli di luce. Il movimento delle braccia di lei disegna un legame forte, infinito, da reinventare. Si alza il loro fiato contro il freddo della notte. Sorridono.

Los Angeles, 1977. Rickie Lee Jones era la ragazzina ventenne che fece perdere il senno a Tom Waits, cantastorie metropolitano già affermato. In breve, l’aspirante folksinger, ne divenne la musa e la compagna. Inequivocabile il retro di copertina di “Blue Valentines” del 1978. L’anno dopo, arrivava il bruciante debutto omonimo di lei (Jazz, Blues, Folk). Il successivo ed altrettanto straordinario, “Pirates” (Soul, Jazz-Rock), 1981, segna già la fine di quel rapporto, particolarmente con la dedica struggente di “We Belong Togheter”.

Rickie Lee è una singer e songwriter, nativa di Chicago, d’adozione californiana: voce limpida e ammaliante, maledettamente vellutata. Canta storie che condividono gli umori e i paesaggi waitsiani, crudi ed urbani, ma si differenzia nettamente da lui, dalla sua ombrosa e sardonica poesia. Lei si presentò inizialmente come una donna arcigna, fascinosa, ninfa errabonda, sbandata, ostentatamente licenziosa, lunatica. Ma, negli anni, si rivelerà sempre più schiva e riservata, mantenendo soltanto la non effimera malizia di una voce tersa, squillante, unica. Un po’ angelo lezioso. Un po’ usignolo ferito.

Scrive testi visionari, ispirati alla Beat Generation, soprattutto legati all’immaginario di Kerouac, ma dall’inclinazione romantica e dalla spiritualità via via più austera. “Allieva” di Joni Mitchell, si muove tra Folk, Jazz, Rhythm’n’Blues, Rock e, col tempo, nel Pop sofisticato (“Flying Cowboys”, 1989), in un crescente repertorio di cover (a partire da “Pop Pop”, 1991), in qualche curioso esperimento (“Ghostyhead”, 1997) ed attualizzazione (“The Sermon On Exposition Boulevard”, un concept sulla vita ed il messaggio di di Gesù Cristo, del 2005). A suo agio con strutture ed arrangiamenti raffinati, nelle sue opere principali è stata affiancata da ottimi produttori (Russ Titelman, Lenny Waronker, Walter Baker) e da ottimi musicisti (Randy Newman, Dr. John, Donald Fagen, Leo Kottke). Sempre capace di scavare nelle emozioni: diretta, ma non immediata, il suo fascino cresce perdutamente con gli ascolti, anche a partire dai pezzi più tenui. E commuove immancabilmente.

Live at the Red Rocks.

La location di questo Live, datato 20 Novembere 2001 è l’arena delle suggestive Red Rocks, in Colorado, già teatro della registrazioni di “Under a Blood Red Sky” degli U2. Si tratta del secondo Live dato alle stampe dalla nostra, successivo all’unplugged “Naked Songs”. Quasi tutti i brani sono suoi autografi, eccetto “Gloria”, omaggio ai Them, e “Don’t Let The Sun Catch You Crying”, originale degli inglesi Gerry And The Peacemakers. Ballate dolci e amare, Folk Rock svisato Swing e Jazz, lineamenti di R’n’B. A testimonianza di un melting pot intricato, apparentemente contraddittorio, e, invece, personale, intimo e disciplinato. Frutto di una spiritualità sognante e malinconica, di una passionalità, apparentemente disillusa, ma accesa. Affiancata da un gruppo di musicisti molto validi e attenti ad esaltarne le potenzialità espressive, la Jones, alla chitarra e alle tastiere, si prodiga in versioni tendenzialmente dilatate, con pudico calore e sincera empatia verso il pubblico.

In scaletta: la sentita elegia di “Rodeo Girl”, percossa da suoni estesi, d’atmosfera; una versione decisamente Blues di “Weasel and the White Boys Cool”, tra bisbigli, melismi, acuti striduli ed assolo di trombe; una “Satellites” accattivante e scivolosa. “Love Is Gonna Bring Us Back Alive” è un duetto caraibico con l’ospite d’onore, il cantautore Country Lyle Lovett. “Chuck E’s In Love”, l’omaggio al poeta di strada e amico Chuck E. Weiss, giocosa e sincopata, tradisce lo Swing e l’anima Blues, ispirate, in origine, dal Van Morrison di “Moondance”. Poi,“We Belong Togheter” che resta una impareggiabile ode, senza tempo:

“…/…
Prenderemo ancora in considerazione queste strade
Noi, giovani leoni in fuga?
Ciò che hai nascosto in fondo al tuo cuore
Andrà sotto i riflettori per loro?
Chi sono gli insensati
Chi sono le vittime
Tra i marinai e i ragazzi perfettini
Chi vorrebbe muoversi nei tuoi occhi
E sulle tue labbra
Per chi sono tutte le lacrime
Che stanno cadendo adesso in questo misero quartiere
Ti ho detto "Uccellino, dobbiamo solo dirgelo"
Ma intanto loro si sono voltati e ci ignorano
E i soli eroi che ci siamo lasciati alle spalle
Sono immobili, proprio qui con noi
E il solo angelo che ci osserva in questo istante
Ci vede l’uno riflesso nell’occhio dell’altro
E io lo posso anche sentire
Ad ogni passo sospirare
È diventato pazzo durante queste nottate
Ascoltando i battiti dei nostri cuori avvicendarsi
E sussurrare
Che noi ci apparteniamo
che ci apparteniamo”.

La musica acuisce la bellezza della voce non scalfita dagli anni: tinta acerba, guizzi velenosi, parlato intrigante, netto, decisivo, che a volte nasconde un cuore nero, teso tra sospetto e bramosia. Più spesso, rivela un raggiunto senso di pace, che splende per ispirazione e consapevolezza.

I difetti dell’album? Manca la sua più grande road song “Last Chance Texaco”. La dimensione live, poi, catturata la performance meglio che può. Cioè imperfettamente.

Una cantautrice di classe, eclettica, dallo stile desueto. Il “Live at the Red Rocks” è paradigmatico. Non vediamo più quanto appariva attraverso le copertine dei primi due splendidi album. Inducendo già un passaggio: dall’icona affascinante, trasgressiva e sensuale, ma individualista, a quella più velata e sensibile, aperta all’altro. In questo LP, l’apertura è rivolta a tutti, come la tappa di una maturazione personale costante, senza più fuggire dal mondo e nemmeno nascondere le proprie debolezze.

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