C’è questo Grande Vecchio.

La sua figura è imponente, solenne, il viso incorniciato da una grande barba bianca. E la sua voce è la voce di un bambino.

La voce di un bambino che è stato a giocare all’Inferno.

E poi c’è una sedia.

E quella sedia è il problema.

Perché quella sedia diventa una facile (troppo facile!) spiegazione. Quella sedia – e il dolore a cui rimanda – richiama empatie pelose, psicologismi da bar, allucinazioni interpretative, voyeurismo critico. E, quel che è peggio, chiacchiericcio banale e banalizzante; come la pazzia di Van Gogh, la gobba di Leopardi o il colore della pelle di Billie Hollyday.

Come se la Bellezza fosse la figlia prediletta della Sofferenza.

E invece il Genio di Robert Wyatt si era già tutto dispiegato prima di quella sedia.

Era germogliato nelle campagne di Lydden, sobborgo di Canterbury, in una grande casa patrizia - Wellington House – nella quale gli Ellidge si erano trasferiti quando a George, il capofamiglia, fu diagnosticata la sclerosi multipla.

Nelle stanze di quella grande casa gli amici di Robert si riunivano ad ascoltare un sacco di Jazz e a parlare di donne, libri, sport, sogni…. E quegli amici, quel pugno di adolescenti brufolosi, avevano nomi come Brian e Hugh Hopper, Mike Ratledge, Dave Sinclair, Kevin Ayers; che ti verrebbe da chiederti come mai la dolce Euterpe si fosse messa di buzzo buono a figliare con tanta foga nelle amene campagne del Kent!

Poi un giorno, alla porta di Wellington House – che era così grande che alcune stanze venivano date in affitto – bussò un folletto viaggiatore, un australiano sbiellato poco più che ventenne, poeta, musicista, cittadino del mondo e visionario che si chiamava Daevid Allen.

Daevid portò in quella casa i suoi dischi di jazz e di musiche strane, un pezzo di mondo, vari tipi di droghe, una bella dose di follia e la voglia di scappare. Ed anche un suo amico batterista, George Niedorf, che – per pagarsi la stanza – insegnò a Robert come si suona la batteria (ad insegnargli a suonare il pianoforte ci aveva già pensato suo padre).

Ed ecco! Son quelle cose che accadono davvero di rado, come per una misteriosa magia: in quei lunghi pomeriggi immobili, quel gruppetto di ragazzotti troppo pelosi, giovinastri sballati e studentelli d’Arte, si inventa una musica nuova, inaudita, sospesa tra il jazz, la psichedelia e le atmosfere bucoliche della campagna inglese.

Una roba che solo per comodità chiameremo “scuola di Canterbury”.

Provo a dirla bene: il Jazz, si sa, è una faccenda da americani (come il blues, il rock’n roll o l’R&B). Ma ciò non impediva che se ne facesse di ottimo anche in Europa: Parigi era quasi una seconda Harlem e Berlino rivaleggiava alla grande con lei e anche Mosca non era da meno (anche se pochi lo sanno).

Ma Londra no.

Per qualche strambo motivo, prima dei ’60, in Inghilterra non è che si facesse un gran jazz! Non che non lo si suonasse – certo! - ma le cose migliori stavano da un’altra parte.

Poi, all’improvviso, nell’autunno dei sixties – boom! – eccolo il jazz inglese! E che roba: Elton Dean, Lol Cohxill, Evan Parker, Fred Frith, Keith Tippett, Derek Bailey, John Surman, Lindsay Cooper ed un sacco di altri.

Ed è anche una musica nuova, che del jazz ha la sintassi e la costruzione formale, ma che parla con un’altra lingua.

E la scintilla che ha appiccato quel fuoco si era accesa in quella grande casa di Lydden, sobborgo di Canterbury, nelle campagne del Kent.

E, insomma, questo già basterebbe a dare al nostro Robert un bel posto in prima fila in ogni Storia della Musica Pop che si rispetti. Solo che, a Robert, il ruolo di capofila della “scuola di Canterbury” non si attaglia; lui tra Caravan, National Health, Camel, Hatfield and the North, eccetera ci sta stretto, come stava stretto nei Soft Machine.

Infatti Robert, ancora prima che tutto cominciasse, se ne va. Dà l’addio a Lydden ed a Wellington Hause (ed a tutto quello che significa) che presto sarà venduta, dopo la morte del padre di Robert. Prima a Maiorca con Niedorf (il periodo più bello della sua vita: tra sballati ed artisti, anarchia e natura selvaggia) e poi a Londra con Kevin e David – il David Allen Trio - a dividere il palco con gente come i Pink Floyd (e, poi, in America insieme ai Soft Machine anche con Jimi Hendrix), ormai cittadino del Mondo.

Insomma nella testa di Robert adesso frulla un minestrone fatto di jazz, jam acide e psychedelia lisergica, atmosfere da campagna inglese, spleen adolescenziale, approccio anarchico ed un bel po’ di humor tipicamente britannico.

E poi c’è Alfred Jarry. E Jarry, per me, è un filo teso fra Cleveland e Canterbury. Chè se volessi parlarvi del genio che in soli 34 anni ci ha regalato Ubu padre e re, il dr. Faustroll, e la “merdre”, dovrei tenervi qui per non so quante altre cartelle…..

E mi si fa notare che tendo a dilungarmi.

Così mi limiterò a consigliarvi di leggere “Gesta ed opinioni del dr. Faustroll, patafisico” e ad aggiungere un nuovo, e fondamentale, ingrediente alla ricetta di Robert: la patafisica.

E così ecco i vagiti dei Wilde Flowers, l’equilibrio instabile dei primi Soft Machine e, poi, “Third” e dentro “Third” quella cosa luccicante e preziosa che è “Moon In June” e, praticamente in contemporanea, una gemma aliena come “The End Of An Ear”.

Tutto quello che serve è già tutto lì. Anche quella voce da bambino, tenera ed inquietante (e neanche così spensierata se pensiamo che il nostro ha già alle spalle un tentato suicidio). Ed è già tanto, tantissimo. Pure troppo. La personalità di Robert è già definita e strabordante e tutto quello che verrà è già tutto disposto davanti ai nostri occhi ed alle nostre orecchie.

Infatti – come detto – nei Soft Machine (e nella cosiddetta “scuola di Canterbury”) il nostro comincia a starci stretto. Troppo stretto. Così verranno ancora un quarto disco in forzata coabitazione coi Softs e due col suo nuovo gruppo: i Matching Mole. E con i Matching arriva anche la politica. Ed un pizzico di staticità.

E poi c’è Venezia.

A Venezia, Robert ci arriva, nel ’72, con la “sua” Alfie. Lei deve lavorare per un film (“A Venezia... un dicembre rosso shocking”) con la sua amica Julie Christie. Robert spera di comporre qualcosa che non sa se userà per un nuovo gruppo che ha in mente, per i riformati Matching Mole o per sé stesso. E spera anche di godersi una bella vacanza con la sua donna.

Invece Alfreda passa tutto il tempo con la sua amica Julie e, per tenersi buono il suo uomo, un giorno gli regala un organetto marca “Riviera” che trova in un mercatino da quelle parti.

E, insomma, quando Robert torna da Venezia la maggior parte del materiale di “Rock Bottom” è già stata composta. E Robert da Venezia ci torna sulle sue gambe.

E, cazzo, si potrebbe chiudere tutto qui e sarebbe pure bello. E Robert e la sua Musica sarebbero altro, ma un altro comunque grandissimo.

Invece il destino è lì che attende al varco: 1 giugno 1973. Una festa, uno scherzo idiota, troppo alcool, un volo, una schiena spezzata, una vita da ricostruire.

Il resto lo sanno tutti (almeno tutti quelli che stanno leggendo queste righe): un pianoforte in ospedale, una lenta rieducazione, la casa di Delfina nel Wiltshire, un sacco di amici che suonano per lui e con lui, il matrimonio con Alfie. E “Rock Bottom” che è un disco ed è anche una rinascita.

Con quel suono di organetto…..

Anche se io, in “Sea Song” voglio ostinarmi a sentirci solo le paturnie di un tizio scazzato perché vorrebbe stare con la sua donna con, intorno, l’atmosfera torbida di Venezia.

Poi verranno ancora dischi. Altri otto in studio a suo nome, e collaborazioni, e live, e raccolte ed EP. Un cantautorato “adulto”, perle di raffinatissimo artigianato. Tutti bellissimi.

Gli ingredienti sono sempre gli stessi: una parte di jazz, una di psychedelia, la campagna del Kent, il pop sghembo, una spruzzata di patafisica e – nonostante tutto – un humor tutto inglese, quel modo così britannico di guardare alle cose con distacco. Poi, di volta in volta si può aggiungere una spruzzata di terzomondismo, un tocco di impegno politico, un sentore di suoni nuovi ed altro a piacere.

Poi, nel 2015, il grande vecchio decide che è arrivato il momento di dire basta. Robert è stanco. Annuncia il suo ritiro e, secondo me, uno come lui se una cosa la dice, la fa.

I discografici, allora, un po’ si sono preoccupati, un po’ si sono fatti due conti: alla fine quanto può tirare ancora avanti un grande vecchio con la schiena spezzata? Si tratta di attendere. Mantenere viva l’attenzione con qualche prodotto celebrativo ed aspettare.

Questo “Different Every Time” potrebbe sembrare il primo frutto di questa strategia mercantile: un libro ed una doppia antologia tanto per cominciare.

Ora un’antologia è un’antologia e – sempre – in un’antologia quello che manca pesa più di quello che c’è. E, poi, proprio per uno come Wyatt mettersi in casa l’intera discografia dovrebbe essere un obbligo. Però, mentre il libro non mi pare che dica niente di nuovo, invece il disco qualche motivo di interesse – secondo me – ce l’ha.

In primo luogo perché quei pezzi li ha scelti proprio lui, Robert. E, così, questo “Different Every Time” potrebbe finire per essere una specie di testamento artistico. Così, nel primo disco “Ex Machina”, la mancanza di “Rock Bottom” (c’è una “Last Straw” dal vivo in versione diversa da quella del disco) e quella (per me dolorosissima) di “The End On An Ear” fanno un certo rumore. Ma altrettanto significativo è quello che c’è: i venti minuti di “Moon In June” posti all’inizio come a dire: “ecco qui c’è tutto quello che serve” (che è la stessa tesi che ho esposto all’inizio di questo scritto). E poi alcune delle sue canzoni più luminosamente pop (“Free Will and Testament”, “Just As You Are) come se il grande vecchio volesse rimarcare che quello lui è stato, alla fine: nient’altro che una pop star.

Ma, soprattutto, vale la pena soffermarsi sul secondo disco – “Benign Dictatorships” – che raccoglie alcune delle collaborazioni che Wyatt ha sparso in decine di dischi (illuminandoli, sempre, con la sua presenza). E’ questo il disco che giustifica il prezzo del biglietto: vuoi perché disvela in modo nuovo la grandezza del genio del grande vecchio, vuoi perché anche al più attento dei completisti qualcuna di quelle gemme potrebbe essere sfuggita.

Bene se deciderete di visitare le campagne del Kent, sappiate che,di notte, sono abitate da voci di fantasmi e che a Canterbury si prepara, anche, dell’ottimo pasticcio di oca. Se a qualcuno può interessare.

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