E’ possibile analizzare razionalmente la follia: è un gioco da ragazzi.
"The End of an Ear" del 1970 è il primo disco solista di Robert Wyatt. L’idea di fondo del disco è presto detta: cercare di studiare, descrivere ed infine elogiare il lato oscuro dell’uomo: la sua parte irrazionale. L’autore cerca di esprimere, attraverso musica e rumori, una visione confusa della realtà. Artisticamente il tema viene trattato sotto un aspetto dadaistico. Si tratta di una scelta ardita, ma consona al fine proposto; probabilmente il modo migliore per descrivere la follia, senza cadere rovinosamente nel baratro dell’incomprensione, è attraverso la visione distorta ed infantile della realtà che può avere un bambino: l’unico essere umano capace di eluderla e di deriderla.
Stilisticamente si tratta di un disco in cui le caratteristiche tipiche del free-jazz trovano terreno fertile e si sviluppano sulle basi del rock psichedelico. Wyatt resta famoso per esser stato uno dei più grandi musicisti che la scena del Canterbury possa vantare; parlando del Canterbury è difficile non ricordarsi di quanto questo stile sia riconducibile ad una fusione di jazz e rock. Nonostante tutto, "The End of an Ear" propone uno stile musicale che attinge solamente al background musicale dell’autore, il quale ha scelto di aprire le porte ad improvvisazioni molto meno calcolate e molto più sanguigne, al punto che, ad un primo ascolto, si potrebbe pensare (erroneamente) al disco come a 40 minuti di improvvisazione razionale di free-jazz; come se si trattasse di un free-jazz molto poco “free”. Invece le improvvisazioni sono sì basate sull’idea di libertà di espressione, ma sono eseguite in chiave psichedelica. Per concludere, viene immesso all’interno di questo calderone un rumorismo spinto, talvolta esagerato ed inopportuno, che dà ancor di più l’idea di un marasma sonoro per niente armonioso, di un magma che ribolle nel profondo dell’anima. Del resto, non scordiamoci che Wyatt cerca di esprimere in musica gli abissi della parte irrazionale della mente umana.
Su Las Vegas Tago Part 1 (Repeat) (otto minuti) è assurdo il vuoto cosmico che Wyatt riesce a creare tra sé e l’ascoltatore: assurdo perché è incredibile come riesca a far sembrare un brano, caratterizzato da una struttura ritmica ben definita e rigorosa, così irrazionale ed inarrivabile. Pianoforte e voci si inseguono disegnando geometrie armoniche improbabili; queste vengono accompagnate da suoni cosmici creati da un sinth. Voci infantili e assolutamente illogiche irrompono nel paesaggio disegnato dagli strumenti che accompagnano una voce che si dispera nello spazio, come se esse potessero comprendere e rispondere ad un allucinato pianto cosmico; il bambino che dileggia il disperato. Sul piano strettamente stilistico si tratta di un crescendo di improvvisazioni che si appoggia su di una base ben definita. Non ha senso cercare le motivazioni delle scelte armoniche dei musicisti; piuttosto, ha molto più senso chiudere gli occhi e perdersi nell’immensità del cosmo (la follia dell’uomo). La batteria è l’unico appiglio alla realtà, ciò che tiene l’ascoltatore con i piedi per terra: tastiere e voci non hanno nulla di razionale, sono semplicemente delle elegie al disordine “ordinato”. La cosa più sconvolgente del brano è che in realtà si tratta di un’opera ben progettata e definita: nulla a che vedere con il disordine cronico che potrebbe apparire ad un primo ascolto. Le ritmiche, per quanto irrazionali, erigono una struttura stabile e duratura: un punto di partenza che rende le voci “incontrollate” sicure di sé, pronte a disegnare geometrie ardite e fantasiose attraverso un oceano di dissonanze e rumori. Wyatt è riuscito a razionalizzare la follia esprimendola in chiave “manieristicamente” dadaista.
To Mark Everywhere è un assolo di fiati su una marcetta appena accennata dalla batteria, accompagnata da un basso irrequieto. Si tratta di un brano addirittura rilassante, se confrontato con quanto ascoltato fin’ora. Molto breve, assolutamente ermetico, incredibilmente shockante. Alla fine del brano una straziante voce spaziale irride l’ascoltatore.
To Saintly Bridget è un brano di puro free-jazz. Fiati e tastiere accennano un tema che non inizia mai, accompagnati da un basso e da una batteria molto “straight”. Sembra di osservare il magma di un vulcano un secondo prima che quest’ultimo erutti. L’evento raccontato dal brano potrebbe essere quello di “A Day in the Life of a Fool”: come se un pazzo (i fiati) girasse nel centro di una città, circondato da persone normali (basso e batteria) che vivono tranquillamente la loro vita.
To Oz Alien Daevyd and Gilly è il naturale seguito del brano precedente. Considero i due brani come uniti, perchè il filo logico seguito dagli strumenti è il medesimo: come se la gente di cui sopra si accorgesse del pazzo che gira fra di loro e si allarmasse. La sezione ritmica, improvvisando ritmi impossibili, esegue un assolo irrazionale che accompagna le evoluzioni compiute dai fiati. E’ un brano fenomenale, come un lungo e complesso flusso di coscienza. Alla fine del brano è chiaro che il “pazzo” non esiste: è la percezione degli altri che definisce folle una persona. C’è dunque da chiedersi se i pazzi sono i musicisti o noi che cerchiamo di ascoltarli.
To Nick Everyone è il secondo brano lungo del disco (nove minuti). Inizia come un botta e risposta tra fiati e batteria, in cui la posta in gioco è l’attenzione dell’ascoltatore. Ed allora ecco un assolo di batteria accompagnato da urla di fiati, basso e pianoforte, che rispondono ad esso nei pochi momenti di lucidità che gli vengono concessi. Un accavallarsi di voci irreali ed improbabili, che cercano di dipingere una melodia laddove non gli viene lasciata la certezza della presenza di un foglio su cui pitturare. La grandezza di Wyatt è quella di far apparire inconsistenti delle frasi ritmiche formalmente difficilissime da suonare, come se rinunciasse al nome di “musicista” per rendere al meglio la sua idea di una percezione distorta della realtà. Un magma sonoro assolutamente irrazionale: c’è forse modo migliore di fare un elogio alla follia?
To Caravan and Brother Jim è un brano ben più cadenzato e strutturato dei precedenti. Una batteria abulica accompagna armonie rilassanti, quasi ecclesiastiche. Ci sono sempre piccoli e fugaci interventi di fiati che allontanano dalla realtà, ma rispetto ai brani precedenti ci troviamo su un punto d’appoggio non vacillante. Progressivamente gli strumenti disegnano strani paesaggi, allontanandoci razionalmente dalla realtà. Il brano termina con piccoli esperimenti ritmici di batteria. Un esperimento rumoristico di free-jazz corale: questo è il brano più normale di "The End of an Ear".
To the Old World (Thank You for the Use of Your Body, Goodbye) è introdotta da fiati che imitano in chiave dadaista dei rumori inverosimili. Sembra si tratti di un esperimento sonoro in cui vengono sciorinate le conoscenze dei vari musicisti su come creare dei suoni assurdi con i propri strumenti. Wha-wha, riverbero, pitch-shifting, modulazione di tono: sono questi i mezzi con i quali ringraziare il “vecchio mondo”.
To Carla, Marsha and Caroline (For Making Everything Beautifuller) è una dolce sinfonia per pianoforte, organo e rumori di sottofondo. Sembra di assistere ad una piccola pièce teatrale. E’ il brano più dolce del disco. Da notare l’assenza di batteria e basso: sembra che il folle che suona il pianoforte non abbia bisogno di una base solida su cui poggiare per descrivere l’affetto.
Las Vegas Tango Part 1 riprende fondamentalmente la struttura del primo brano del disco. Un climax di armonie di pianoforte, fischi e fiati generano dal nulla un vortice che ci sottrae dalla realtà e ci scaraventa violentemente all’interno di noi stessi. Il passaggio da realtà a fantasia è marcato dalle solite voci aleatorie che hanno accompagnato l’ascoltatore fino a questo punto del disco. Un sinth molto dolce accompagna i folli che intervengono a rovinare l’armonia. Il senso di fondo del brano è un lento avvicinarsi all’apocalisse. Tra le voci distorte che intervengono nel brano sembra di distinguere addirittura qualche parola di senso compiuto! Nonostante tutto, per quanto si tratti di esperimenti sonori che descrivono il caos, è stupefacente quanto sia fredda e calcolatrice la voce che, singhiozzando, funge da batteria (in netto contrasto con quella che accompagnerà Alifib quattro anni dopo su Rock Bottom). Il brano termina improvvisamente, proprio nel momento in cui ci si abitua all’idea di abbandonare la realtà per capire cosa sta succedendo.
Probabilmente è venuto fuori esattamente il disco che Wyatt voleva fare: un disco ermetico, in cui è facile distogliere la propria attenzione dalla linearità che (paradossalmente) contraddistingue l’opera. In realtà ogni scelta, armonica e strutturale, è ben definita e razionalizzabile, benché, ad un primo ascolto di "The End o fan Ear", l’idea che resta è di un gruppo di drogati che, senza alcuna competenza in materia, cercano di comporre musica. L’idea di fondo è senza dubbio accattivante e affrontata in maniera innovativa, ma la grande pecca del disco è la sua inaccessibilità: sarebbe stato meglio porre maggior attenzione alla parte musicale per rendere più fruibile al grande pubblico un’opera concettualmente e stilisticamente molto interessante.
Un disco imprevedibile, difficile da ascoltare, terribilmente noioso se ci si sofferma all’apparenza, stupefacente se ci si concentra sull’abissale profondità del caos.
Carico i commenti... con calma