La carriera dei Roxy Music iniziò grazie ad un episodio molto particolare, quando il popolarissimo John Peel fu invitato ad assistere al concerto di un gruppo che si stava facendo strada con difficoltà nel sud Inghilterra, ma che aveva già molto successo soprattutto in Italia. In quel concerto del 1971, suonavano i Genesis che, come gruppo spalla, avevano i Roxy Music. John Peel fu letteralmente sbalestrato dalle atmosfere create da Eno, Ferry e soci, tanto che si narra che alla fine della loro esibizione se ne andò soddisfatto, senza neppure assistere al resto del concerto. Da allora, nel suo programma, i Roxy Music furono giornalmente inseriti e tutto il mondo si innamorò del loro modo elegante di fare rock.

Per la band la dimensione live fu sempre un punto fermo: il pathos creato era sempre grande e, per volere di Brian Eno, iniziarono a registrare su nastro ogni concerto, cosa che avvenne anche dopo la fuoriuscita del geniale tastierista dalla band. Nel periodo 1975-1976, dopo l’uscita dell’ottimo Siren, i Roxy Music finirono in una sorta di sospensione temporale, nella quale ogni membro preferì dedicarsi o alla carriera solista, come Bryan Ferry o a progetti paralleli, come Phil Manzanera con gli 801 o con i Quiet Sun. L’etichetta, pur di non perdere il mercato decise di mettere fuori, come si faceva ormai di norma, un album live. Dai nastri fu selezionato materiale per un singolo, ma bello denso e ricco, abbracciando concerti dal 1973 al 1975 e tentando di evidenziare nel miglior modo possibile l’atmosfera magica delle loro performance.

E la scelta è stata positiva, pur non con la migliore e variabile qualità audio. Fin dal primo percussivo avvio del disco si entra in una dimensione fatta di grande tensione che porta all’esplosivo e dinamico intro di “Out Of The Blue”: la batteria di Paul Thompson è secca, precisa, non dona al groove e non lo priva, di un solo colpo diverso dal necessario e quando Bryan Ferry e Andy Mackay partono il climax è massimo. L’editing ha voluto far sembrare tutto come derivasse da una sola serata e la fluidità dell’opera è garantita, così il sospiro saltellante di “The Bogus Man” si accende nel suo devastante crescendo. John Wetton e Eddie Jobson sono una coppia dalla tecnica sopraffina, poi si ritroveranno negli UK, ma qui è da sentire la classe con la quale portano in alto i temi melodici e nervosi della lunga “If There Is Something” con una serie di magici assolo sui quali spicca quello ipnotico, spaziale e psichedelico di Phil Manzanera alla chitarra e dell’inquietante e atmosferica “In Every Dream Home A Heartache”, con un Ferry a dir poco stellare. Il finale ci porta al classico brano “encore” con la violenta “Do The Strand”, rapida, malvagia e velenosa come il morso di un crotalo.

Musica coinvolgente, calda come un’estate ai tropici, ma fresca come una brezza di monte, nonostante i suoi lustri. Tra i migliori live dell’epoca. Immancabile!

P.a.p. – sioulette.

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