Forse Godot non arriva perché lo si aspetta nei posti sbagliati.

Una stanza. Vuota.

Forse Godot non arriva perché lo si aspetta insieme ad altri.

Una persona. Sola.

Forse Godot non arriva perché lo si aspetta prostrati ai piedi dell’idea che ci si fa di lui.

Una sedia al centro della stanza.

E la sedia è spagliata, malferma, tarlata: lo scranno di un Re senza sudditi, di un Napoleone confinato a Sant’Elena, di un “Julius Caesar” relegato in quattro mura.

Arpeggi lo-fi di una chitarra scordata vagano per la sala seguendo il filo di un intimismo sconnesso, fragile e stralunata malinconia che non osa più aprire la finestra.

Come se ai salmi notturni di un Nick Drake mancasse l’altare di una Luna Rosa, come se al frullar d’ali di un Syd Barrett fosse negato il ristoro di boschetti psichedelici.

Attesa e assenza.

Un’attesa che si è scordata di essere tale e diventa l’ostinata fissità una coscienza che osserva le crepe lungo i muri, l’eco di un solipsismo àtono. Un’assenza di un qualcosa o di un qualcuno che non si è mai incontrato, un paradiso perduto vagamente evocato da morbide linee di violoncello, un personalissimo nume tutelare i cui tratti sono improvvisamente scarabocchiati dalla mano di spasmi elettrici.

Come se agli indolenti languori di un Dave Pajo solista fosse negata la morbidezza di un letto armonico sul quale adagiarsi, come se alle eccentriche impennate dei Gastr del Sol mancasse la guida sicura di un David Grubbs.

Godot non arriva, ma forse per Smog non è poi così importante.

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