Nel 1973, le rivoluzioni all'interno dei Soft Machine erano ampiamente consolidate. L'unico membro fondatore rimasto, Mike Ratledge, pur mantenendo una importante quota compositiva, era ormai sottomesso allo strapotere di Karl Jenkins, che, da dotatissimo pluristrumentista, dominava ampiamente i modi e i tempi dello sviluppo armonico e delle scelte della band. Con i nuovi indirizzi musicali, Jenkins, portò in studio una band solida, matura e con i piedi ben piantati a terra. Band che oltre ai due citati vedeva una funambolica sezione ritmica, con John Marshall alla batteria e Roy Babbington al basso, perfetta per certo jazz rock un po' di maniera, così da lasciar da parte sperimentalisimi e free form di sorta. Quindi, questa formazione risultò essere per 3/4 composta da ex Nucleus, dato in sé fondamentale e rappresentativo del grande affiatamento dei membri.

Quel che venne fuori è per certi versi incredibile. Vero che i Soft Machine ci avevano abituati, da sempre, ad una evoluzione continua, spesso improntata a cambiamenti decisi e repentini, vuoi anche per i continui mutamenti della line-up, ma per "Seven" il discorso fu ancora diverso. L'essere fondamentale di quest'opera è il poterla collocare nel suo futuro, ben oltre l'anno di uscita, grazie alle eccezionali intuizioni, soprattutto di Jenkins. La scrittura dei brani prese una forma diversa, solo in minima parte già sperimentata dagli stessi in qualche momento dei precedenti "Fifth" e "Six" e da altri grandi autori in brevi momenti della carriera come ad esempio Herbie Hancock, John McLaughlin e Joe Zawinul. Il senso era quello di costruire un riff micidiale, ipnotico, perfetto nel suo reiterare e costruirci sopra melodie a volte appena palpabili, a volte più ricche, ma sempre emozionali ed evocative. La pratica funzionò bene ed ebbe il suo apogeo con la suite "Hazard Profile" del successivo "Bundles", grazie anche, ovviamente, all'arrivo nei ranghi del fenomenale Allan Holdsworth. Ma il nuovo non fu tutto qui: nel disco si avvertono embrioni di world music, di new age, di ambient, perché l'essere seminali per i Soft Machine era il destino, era il compito assegnatogli dalla storia.

Volendo rispettare la suddivisione del vinile e quindi quello che fu il concetto di base del lavoro, troviamo una prima parte abbastanza equamente divisa tra brani composti da Retledge o da Jenkins. Di quest'ultimo è l'avvio con la maggiormente orecchiabile "Nettle Bed" e la splendida ed eterea jazz ballad "Carol Ann" nella quale si sperimenta, per la prima volta nella storia della band, il synth nonofonico della AKS per il tema portante. Più improntata verso il jazz rock classico di stampo softmachiniano la successiva sezione di Ratledge con le meraviglie solistiche che troviamo in "Day's Eye" e il suo complesso tema in 9/8 e "Tarabos". La composizione della seconda parte, invece, pende decisamente verso Jenkins (cinque brani su sei), tra queste spicca il dinamico crescendo di "Penny Hitch", dominata da un lungo assolo di oboe, magico, trascinante, dai tratti quasi orientali, alcune sequenze di note contengono un tale punto di lirismo da risultare commoventi. Trascinanti e poderosi sono i temi jazz rock di "Block" con uno scatenato Babbington al (credo primo della storia) basso a sei corde a portare un mirabile 5/4 e un solo di synth di Ratledge in pieno marasma canterburyano. Verso il finale, lasciato il groove di "Down the road" si passa a temi maggiormente innovativi, con arie in qualche modo riconducibili a new age e ambient ante litteram, l'elettronica prende piede e Jenkins, che qui voglio anche ricordare per il notissimo tormentone "Adiemus" https://youtu.be/UX__4aHwYzM, mette giù decise impronte sperimentali che, pur derivando in parte da concetti rileyani, saranno seguite per gli anni a venire da decine di autori.

In conclusione ritengo che "Seven" sia un lavoro sottovalutato e che le sue valenze vadano fortemente al di là del semplice disco di transizione, come molti, sbagliando, lo reputano. Nella mirabile evoluzione della band è un tassello fondamentale e, come ho spiegato, lo è anche a livello più ampio. Non fermiamoci, quindi, ad un suo ascolto superficiale.

sioulette

p.a.p.

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