Bei ricordi. Nell'estate del 1998 i Sonic Youth erano stati a Collegno, stessa tornata del concerto di Bob Dylan, cui mi ero ugualmente precipitato, ma quella volta andò male: dopo 4 brani, se ne erano corsi via terrorizzati da un semiuragano imminente, con Thurston Moore che gridava: «I don’t wanna die, guys». Anche nel pomeriggio del 6 luglio 2002 pioveva, ma la sera il parco della Pellerina di Torino li accolse infine sotto un cielo quieto e stellato. Provenivano da alcune date francesi e anche italiane (come Cagliari e Arezzo). L'ultimo disco, “Murray Street”, segnava un ritorno a certe venature melodiche meno presenti nelle ultime produzioni “A Thousand Leaves” (1998) e “NYC Ghosts & Flowers” (2000: qui aveva avuto inizio una trilogia sulla Lower Manhattan il cui secondo passo era appunto "Murray Street"). Era l'album di “Karen revisited” - e non solo.

Va anzitutto detto che nel concerto della Pellerina la mano sapiente di Jim O’Rourke, geniale bassista di Chicago (già produttore di Wilco e Red Crayola), il quale solo da "NYC" suonava con Kim Gordon, Thurston Moore, Lee Ranaldo e Steve Shelley, offrì un mirabile supporto (li avrebbe poi lasciati nel 2005, dopo “Sonic Nurse”). L’apertura fu affidata a “Candle”, teso ed elettrico, nono pezzo del leggendario doppio “Daydream Nation”. Intanto Leonard ringraziava profusamente per gli applausi; «oblong» Thurston commentava il clima, faceva battute, ammiccava e «free» Kim, durante una sua compiaciuta improvvisazione, gli allungava un ironico calcetto - altri tempi (e altri calci, probabilmente).

L’approccio dei Sonic si situava alla confluenza fra il dionisiaco e il ludico, ossia fra l'evasione in sé, non controllata, dai tratti oscuri, uno sprofondare nell'abisso, e la regola capace di dominarla o riassorbirla attraverso il piacere dello scherzo e della sorpresa. Non di rado, la prima sequenza costruisce uno spunto melodico (poche note ricamate alla chitarra), ma qual è la sua funzione? Quella del trampolino per il resto del brano. Non è null'altro che lo spicchio di un'intera visione. Nel procedere, quest’immagine iniziale viene sovrastata e stravolta. Lo si vide anche quella sera, nei climax che incenerivano ogni melodia, o nelle schitarrate catartiche. Prendiamo “Rain On Tin”, fra i tasselli più felici di “Murray Street”: i tre leaders, coadiuvati da O’Rourke e da Shelley, strepitoso batterista, si inabissarono in una suite che fece presto sembrare remoto il primo idillio, finito chissà dove, passo dopo passo, un arpeggio innocente dopo l'altro - sempre meno innocente. E il tracciato sonoro rallentava, accelerava, s'impennava, ritornava su di sé e si allontanava un'altra volta, a ondate. Al termine di una farandola incendiaria, si tornò allo scheletrico motivetto iniziale. Dunque c’era. Anzi, c'era sempre stato, in agguato al disotto di quel tappeto di distorsioni. Che il «rumore» dei Sonic fosse il più delle volte intrinsecamente geometrico, o che i due esiti non fossero poi in realtà così diversi, lo dimostrarono più che mai - cosa significativa per un'esibizione live - almeno due pezzi della data torinese, “Eric’s Trip” e la recente “Radical Adults Lick Godhead Style”. In entrambi, il vortice sonoro evitò le pastoie della cacofonia.

Nei Sonic, lo sfondamento della soglia del rumore determinava l’approdo a un nuovo gradino espressivo, non l'esibizione d’una confusa rabbia iconoclasta. Il loro rumore, soprattutto dal vivo, poteva anche essere puro astrattismo, come nella seconda parte di “Karen revisited”: dopo alcune strofe in apparenza innocue, sfruttandone le potenzialità autodistruttive la linea melodica si accartocciava sotto il tiro incrociato delle distorsioni. Restava un cratere fatto di suoni sparsi, echi e fruscii. Intanto Ranaldo, come uno sciamano, trascinava per il palco la chitarra, rivoltandola in ogni possibile modo per trarne gli effetti più vari, mentre, su di uno sfondo di piatti ossessivo ma ovattato, Kim, Thurston e Lee innalzavano le loro sopra la testa, accostandole anch'essi alle casse perché ogni vibrazione, ogni fremito venisse colto: quello stesso strumento che fino a poco prima dipingeva melodie cantabili si faceva adesso veicolo di rabdomanzia sonora. Risultato: la melodia iniziale era smembrata, lacerata, fatta a pezzi in una girandola di convulsioni, come accade in “The Diamond Sea”, dove all'ottavo minuto si comincia a soffocarla dolcemente, poi la si strapazza e infine, dopo una brutale lotta titanica, al diciannovesimo, la si fa affondare.

Peraltro i Sonic, nella loro semplicità – niente effetti visivi -, sapevano garantire una presenza scenica d’impatto. Ricordo ancora che, durante la funambolica “Kool Thing”, Kim si rotolava a terra, ma fu soprattutto spettacolare la sua performance in “Kissability” e “Bull in the Heather”, il cui procedere ipnotico impiegò poco a trasformarsi in un incalzare di sonorità aspre e contrastanti ancor più minacciose che nella traccia su disco.

Venne infine il momento dei bis, sempre amaro: “Disconnection Notice” e “Silver Rocket”, grande scarica finale di adrenalina. Applausi, grazie della lezione e arrivederci.

Certo, si era sentita la mancanza di pezzi memorabili come “Sugar Kane”, “100%”, “Washing Machine” o “Song For Karen”. Per non parlare di molti altri brani, di “Evol” come dello sconfinato “Daydream Nation”. Ma come riprodurre un simile repertorio in una mezza serata?

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