Nitido, ipnotico, distaccato, ossessivo, rigoroso nella sua ricchezza di invenzioni (sempre l’improbabile, mai l’impossibile), “2001: Odissea nello spazio” è un’avventura misteriosa, una parabola psichedelica, un viaggio stupefacente ed allucinogeno, ma straordinariamente realistico, nel buio dell’inconscio e dell’evoluzione. Frutto della rielaborazione di tre racconti di Arthur C. Clarke (“La sentinella”, scritto nel 1948, “Encounter in the Dawn” e “Guardian Angel”, entrambi composti nel 1950), Kubrick realizza la sua opera più ambiziosa, “il primo film, dai tempi di “Intolerance”, che sia una superproduzione e nello stesso tempo un film sperimentale” [Ghezzi], uscito, non bisogna dimenticarlo, più di un anno prima dell’arrivo dell’uomo sulla luna (e pensato a partire dal 1964). Mancante di una vera e propria trama narrativa, sostituita da audaci salti di tempo e di spazio attraverso superbi ed esasperati “match cut”, in cui anche i personaggi sono privi di una vera personalità, presentandosi come paradigmatiche e funzionali ombre alle esigenze simboliche della narrazione (i dialoghi occupano meno di un quarto della pellicola), l’unico reale protagonista delle vicende è un monolite-noumeno, un “Nunc Stans” dai bordi dritti e dai margini angosciosamente delineati.

“2001: Odissea nello spazio” è un non-film, che, con un inizio darwiniano ed un finale lisergico da cinema underground, rovescia il tragico paradosso dell’intelligenza come arma di sopravvivenza in un sogno nietzschiano a sfondi straussiani e che fa passare il cinema dalla narrazione al mito realizzando una sintesi fra realismo e simbolismo. Come ha detto Kubrick: “ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico ed allegorico del film. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio.” E anche in tv, senza la forza del grande schermo (il film è girato nel formato 70mm superpanavision), le sequenze finali (realizzate attraverso una stampatrice ottica, inventata di sana pianta da Douglas Trumbull, battezzata “slit-scan” – basata sulla tecnica della “streak photography”) conservano la forza visiva e rimangono una delle prove più alte della magia del cinema.

Il nome di Hal 9000 nasce dalle iniziali che compongono i due metodi di conoscenza e comunicazione: heuristic (euristico) ed algorithmic (algoritmico), ma è anche un criptico “omaggio” all’Ibm, perché il nome del computer è stato inventato da Kubrick utilizzando le lettere che, nell’alfabeto, precedono quelle della famosa società. La non entusiasta accoglienza ricevuta dal film dopo la prima proiezione del 2 aprile 1968 all’Uptown Theatre di Wasghinton D.C. spinse Kubrick a rimontare il film insieme a Ray Lovejoy, riducendolo dai 160’ originari agli attuali 141’. Nel 2009 sono state ritrovate dalla Warner le parti tagliate senza colonna sonora , ma sembra che per rispettare la volontà del cineasta, la casa di produzione in questione non abbia intenzione di divulgarle.

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