Il blues è morto e sepolto. E pure da un bel pezzo. Non sono pochi a pensarlo, e soprattutto sono sempre di più. Chissà cosa sarà passato per la testa di Henry Saint Clair Fredericks, in arte Taj Mahal, quando sul finire degli anni '70 fu scaricato dalla Warner Bros. Records al termine contratto, senza riuscire a strapparne uno nuovo alle altre case discografiche. Tempi duri, dominati da hard rock (con vagiti di metal) pop e disco music, in cui è estremamente difficile fare un gran disco blues. Taj non lo sa, però se ne accorge ben presto. Ma quando un qualcosa è tutta la tua vita non ci rinunci tanto facilmente, così il bluesman americano fa i bagagli e si trasferisce alle Hawaii, dove recluta i membri che andranno a formare "The Hula Blues Band", coi quali suonerà per buona parte degli '80s. Il ritorno su disco avviene nell' '88 con Taj, cui segue una scia lunghissima di album discreti alternati ad altri molto buoni se non ottimi. Apice creativo di questa rinascita del bluesman americano è senza dubbio "Señor Blues", un piccolo breviario della musica nera: a farla da padrone sono soprattutto blues e soul, ma il nostro è musicista aperto alle più disparate contaminazioni, che regalano un tono di imprevedibilità e fascino in più ai suoi lavori.
L'iniziale "Queen Bee", primo dei tre brani originali inclusi, è testimone perfetto di questa tendenza che caratterizza tutto l'album, con la sua influenza reggae ad arricchire una canzone in cui emerge imperante la splendida voce di Taj, potente come nei bei giorni e impreziosita dal tempo con venature soul. Il viaggio nella musica nera prosegue tra gospel funambolici, scatenati funk e perfino jazz, ma sono soprattutto i soul a farla da padrone. Alcuni hanno quasi un piglio pop ("Having A Real Bad Day"), altri una carica devastante, senza dimenticare due o tre ballate (tra cui l'eccezionale "21st Century Gypsy Singin' Lover Man"). C'è spazio anche per il blues, primo amore di Taj, che oltre a ritagliarsi il ruolo di protagonista in un paio di episodi è il vero minimo comune multiplo di tutti i pezzi di questo coinvolgente album.
Ad accompagnare il leader, sempre impegnatissimo tra harmonica, dobro, kazoo e voce, il pianista John Cleary (autore di due canzoni), l'organo di Mick Weaver, la chitarra di Johnny Lee Schell e la sezione ritmica composta da Larry Fulcher e Tony Braunagel. Ad arricchire il suono infine The Texacalli Horns, duo impegnato ai fiati, e un gruppo di coriste; il tutto coordinato dalla precisissima produzione di John Porter che rende perfetti i suoni senza snaturare il suono di Taj.
Rendendo omaggio a Otis Redding e Marvin Gaye, passando per T-Bone Walker e il pianista jazz Horace Silver, Taj Mahal realizza un disco omogeneo (vincitore di un Grammy come miglior album di blues contemporaneo) nonostante la diversità dei generi interpretati, divertente e fresco dalla prima all'ultima nota.
Alla faccia di chi dice che il blues è morto.
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