"Abbey Road" è probabilmente il disco più maturo dei Beatles. Per molti è anche superiore al Sgt. Pepper's, anche se io continuo ad affermare il contrario. Nulla a togliere al primo ma per quanto possa risultare tedioso, Sgt. Pepper's è Sgt. Pepper's.
L'album che raccoglie il nome della famosa strada dove sono tuttora ubicati i famosi studios, nasce in un periodo piuttosto particolare per i Fab4. Periodo oscurato dalla voglia di evadere di ognuno, dalla possibilità di intraprendere carriere solistiche, dai troppi veleni fomentati da Yoko "Cobra" Ono, ormai odiata da tutti ad eccezione del confuso Lennon. Periodo costellato anche dalla ridda di voci sulla presunta morte di Paul. La fine dei Beatles è vicina ma con poderosi fuochi artificiali.
Abbey Road, nonostante tutto è un'opera dal fascino prorompente, ricca di eccezionali pezzi di rock puro, litico, scintillante, a tratti corrosivo, che si alternano con le dolcezze di archi vellutati e chitarre suonate con assoluta semplicità. Performances vocali di grande rilievo e commenti musicali di eccezionale fattura si scontrano senza alcuna violenza con sortite di rumori sapientemente cesellati.
Overture di eccellente lavorazione. "Come together" è un grande pezzo di musica rock che ha davvero pochi rivali, a partire dalla voce metallicamente spezzettata di Lennon, che canta liriche improntate sui suoi celebri nonsense e dalla batteria sottile ed essenziale che accompagna semplici, ma terribilmente efficaci, assoli di chitarra elettrica che contribuiscono a corazzare l'imponente mole del brano. Danzante il basso di McCartney che ci regala giri degni di nota reperibili anche nella preziosissima "Something", a mio avviso seconda solo a "While my guitar gently weeps".
Suadente la voce del rimpianto Harrison, in alcuni punti così dolcemente spinosa da toccarti l'anima, così come l'intermezzo di chitarra elettrica che evidenzia la leggerezza del brano. Si passa poi in una fascia scherzosa, una fase di divertissment che possiede la sua benevola influenza nel corpo dell'album. "Maxwell's Silver hammer" e il secondo/ultimo brano scritto da Ringo Starr, "Octopu's garden" sono piacevolmente scorrevoli, interlineati dalla poderosa "Oh, darling!", vocalmente rubata da McCartney a Lennon. Meglio così, a mio avviso. Se l'avesse cantata John, con il suo timbro leggermente più nasale che tende ad un gutturale sanguigno negli stadi alti, non avrebbe sortito lo stesso effetto. La voce limpida di Paul, esplosiva nelle evasioni tenorili, possiede il timbro adatto per una interpretazione che giudico eccezionalmente poderosa.
Arriva "I want you", altro punto eccelso dell'album. Rock dal timbro acido, adatto alla voce di Lennon (veggasi la discussione de quo), giri di basso straordinariamente efficaci e chitarre prima accarezzate negli intermezzi e poi picchiate in maniera piacevolmente assordante nel riverbero finale che fuse ad un solforoso quanto distruttivo fruscio, donano potenza ad un brano di forte intensità.
Si ritorna alla normalità, per modo di dire in quanto si toccano picchi altissimi, con "Here comes the sun", di un Harrison in stato di grazia che ci regala una canzone di una freschezza ed essenzialità assolutamente coinvolgente. Le graziose spire della sua voce già reperibili in "Something", avvolgono l'orecchio e non solo dell'ascoltatore, creando un importante effetto di straniamento.
"Because", sapientemente ricalcato su un pezzo di musica classica (forse Beethoven) e furbescamente rivoltato al contrario, trattasi di altro brano anomalo, (veggasi She's leaving home), accompagnato dalle sole voci e da una chitarra/organo/clavicembalo (perdonatemelo) di ottimo impatto emotivo. Nasce poi il secondo divertissment, tradotto in un medley, il primo, che racchiude quattro brani di breve durata abbastanza efficaci sia musicalmente che vocalmente, ad eccezione di "Sun king" che appare melodicamente interessante ma connotata da un testo assolutamente inutile. Il secondo medley lo troverete scritto sui libri di storia. "Golden slumbers/Carry that weight/The end" non ha bisogno di presentazioni di sorta, tanto meno della mia. Dalle arie dolci e toccanti ai cori goliardici e graziosamente invadenti per concludere con una frase nata da madre filosofia e padre saggezza. Prima di ascoltare il vero commiato dei Beatles, dove "alla fine l'amore che prendi è uguale all'amore che fai" sorbitevi la scarica sonora da 1, 21 GW dei Fab4 e ne riparleremo. "Her Majesty" sarà stata dimenticata da Geoff Emerick ma non ha importanza.
Colossale opera rock che rimane, sempre a mio avviso, a guardare il Sgt. Pepper's al lieve, quasi impercettibile gradino inferiore.
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