Anno Domini 1966. I preparativi alla rivoluzione fervono ma nessuno sembra voglia curarsene a quanto pare. L’anima di gomma pervade e ingabbia quelle invisibili di milioni di ascoltatori in ogni parte del mondo. Uno sperimentatore di suoni italiano, nascosto ancora per poco tra le incandescenti, croccanti zolle brune dell’Etna, renderà perfettamente lisce le superfici del vinile a forza di ascoltarlo. Oltre i confini dell’oceano cadetto, dei ragazzi da spiaggia la sposeranno per produrre ciò che apparentemente raccoglierebbe suoni destinati a cuccioli di animali domestici. Anzi, tutt’altro.

Da un pugno di mesi è decisamente terminata la relativamente lunga lode all’amore romantico (e non solo) che ha infiammato il cuore di milioni di ragazzine ululanti. D’altronde era giunto il momento di cambiare rotta, visto che anche un suono più deciso, più fluido, più navigato, poteva competere ben poco con quello caustico della casa del sole nascente. Un accordo non ancora identificato aveva però preparato il letto del bivio su cui i coleotteri avrebbero sparso asfalto indelebile.

Una frase assolutamente giusta punzecchiò il culo di un nutrito gruppo di beoti bigotti a stelle e strisce e tra roghi, anatemi e ku-klux-klan, Jane Asher presenterà Antonio Vivaldi a Paul McCartney. Quest’ultimo, “enchantè”, stringerà vigorosamente la mano del compositore e si lascerà trasportare da quella corrente di archi che lo contraddistingue.

Eleanor Rigby è un’anima sola non perché voglia distaccarsi dalle persone o perché queste la relegano nell’oblio per qualche motivo. Nessuno si accorge che esiste. O quasi. Eleanor Rigby è un’ombra che appare quando sei già andato via. Puoi sentire le sue unghie graffiare i ciottoli ruvidi del cortile davanti alla chiesa nel recuperare quei chicchi di riso crudi che si sono infilati tra le fughe. Forse lo fa per sfamarsi o per soddisfare qualche strano capriccio che la malinconia le impone per un po’ di compagnia. Forse non è poi così sola come crede.

Il curato, Padre McKenzie, è forse il suo unico amico, anche se lei non è la sua perpetua perchè i calzini se li rammenda da sè. Anche Padre McKenzie è solo. Quando celebra la messa parla alle candele accese per una prece anonima e quelle parole che raccoglie di notte per l’eucarestia successiva pesano come macigni sulla sua coscienza. Parole a cui probabilmente non crede neanche il crocifisso che ha di fronte. Quando l’ultimo petalo di quel fiore ormai secco cadrà, sarà proprio lui a seppellirlo. E lo farà come si deve, arrivando a sporcarsi le mani con la terra fresca che lo accoglierà. Per poi tornare a predicare senza che nessuno continui ad ascoltarlo.

McCartney scrive una poesia molto profonda che si libera dalle catene non sempre solide del rock per elettricità e percussioni. Gli archi fendono l’atmosfera del brano come incerti ma precisi battiti d’ali. L’incedere dei violoncelli mette fretta, pone in agitazione, come se una morte impaziente rincorresse con fatica la pur lenta, acciaccata Eleanor prima di raggiungerla ed avvolgerla tra le sue spire. Di notevole effetto la frase di viola nella chiusura della seconda strofa e la controvoce dello stesso Paul nel finale. John e George danno efficacemente vigore alle ripetute liriche d’abbrivio. Solo un genio può musicare il dolore, la solitudine, l’indifferenza e la morte in una piccola sinfonia che supera con un po’ di sforzo i 2 minuti.

Eleanor Rigby, una lapide ce l’ha ed è sepolta con altri familiari che per puro caso sono diventati i defunti più celebri di un cimitero di Liverpool, ubicato nel quartiere di Woolton dove nacque John. Aveva 44 anni e morì il 10 ottobre del 1939. McKenzie fu un cognome dotato di un minimo di assonanza adatto al brano, rubato ad un elenco telefonico.

Stesso anno, stesso album, stesso singolo e stesso lato, il primo doppio lato “A” della storia. John e Paul scrivono una allegra storiella musicata per addolcire le orecchie dei bambini e la affidano al timbro vocale bonaccione e amichevole di Ringo.

Nessuno meglio di lui avrebbe preso per mano come in un enorme girotondo, milioni di bambini per guidarli in una terra favolistica e colorata abitata dai sommergibili. Il sottomarino giallo è un allegro giocattolo che naviga in una girandola di suoni creati per l’occasione. Alla registrazione, in uno studio avvolto da un’atmosfera festosa, un clima di assoluta spensieratezza, parteciparono tra coristi e tecnici del suono anche Marianne Faithfull e Brian Jones.

John produsse l’effetto delle bolle soffiando semplicemente in una cannuccia adagiata in un bicchiere d’acqua. Il clangore che si avverte più volte venne prodotto da una catena fatta frusciare sul fondo di una bacinella di metallo da Alf Bicknell, l’autista del gruppo. Jones provvederà a far girare un’elica di plastica in un recipiente colmo d’acqua e a far tintinnare delle lastre di vetro. Verrà compresso il suono di un flauto, di un’ocarina, di una grancassa (Mal Evans e Neil Aspinall), di monete lasciate cadere su una superficie metallica (che i Pink Floyd recupereranno per “Money”) e la Faithfull scuoterà a mò di sonagli delle bottiglie in plastica riempite con la ghisa minerale.

E mentre in un catino pieno d’acqua un microfono ci lascerà le valvole per rendere più reale il suono di una immersione…and the band begins to play…è il divertimento di un quartetto di ottoni preso in prestito ad un nastro da Geoff Emerick. E se John e Paul registreranno le loro voci compresse attraverso una lattina vuota per urlare “Cut the cable! Drop the cable!” e “Captain! Captain!”, il primo, completamente ubriaco, firmerà la goliardica voce grossa che fa il verso all’ultima strofa.

Il risultato è perfetto e spiega come è possibile comporre, divertendosi, con insoliti ma efficaci mezzi a disposizione, una spensierata filastrocca capace di regalare un sorriso ad un bambino ed un motivo inconfondibile a tutto il mondo. Per non parlare del suo inserimento emotivamente straniante in un album psichedelico come “Revolver”.

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