Come gli altri album dei Beatles, questo disco è sopravvalutato da molti e sottovalutato da altrettanti. Chiariamo subito: “Rubber Soul” non è un capolavoro. Dal punto di vista musicale è, globalmente, inferiore al bistrattato “Let It Be”. Di sicuro non ne ha la fantasia.

Esagerando un pò, possiamo considerare “Rubber Soul” come la sublimazione dei primi 5 dischi del gruppo. Dico esagerando perché, musicalmente, le canzoni, in generale, non sono migliori delle migliori canzoni dei cinque dischi precedenti (“And I Love Her”, “I’ll Be Back” , “I’ll follow the sun”, “You have got Hide Your Love Away”, “Yesterday”).

E’ senz’altro vero, però, che su “Rubber Soul” le brutte canzonette dei dischi precedenti sono quasi completamente assenti - a parte due cadute come “What Goes On” (uno scarto di “Help!”) e “Run for Your Life” (di cui Lennon, negli anni 70, si vergognava di parlare), che furono inserite nel disco per rispettare il contratto di 14 canzoni a disco. Come dice Robertson, questo album, anche nelle canzoni d’amore, è uno dei più maturi del gruppo.“Day Tripper” e “We Can Work It Out”, avrebbero elevato di molto il livello musicale del lavoro.

Il making di questo disco fu molto travagliato. I Beatles tornarono a Londra distrutti dopo il tour del 1965, l’apice e l’inizio della fine della Beatlemania (con il celebre concerto allo Shea Stadium). Volevano solo riposare. Ma il loro contratto prevedeva un altro disco da pubblicarsi a Dicembre. E gli affari sono affari … Così si misero all’opera componendo a man bassa, ispirati o meno. Stupisce che in condizioni così asfissianti per la creatività, tirarono fuori cose così pregevoli.“Rubber Soul” fu uno dei principali regali del Natale del 1965, e con un pezzo splendido come “Michelle” (Grammy come migliore canzone dell’anno), fece sfracelli nelle classifiche di tutto il mondo.

Eccellente per originalità un’altra canzone di McCartney, “Drive My Car”, un pezzo senz’altro da mettere tra i classici del gruppo. Più che la musica, quello che colpisce il sottoscritto sono alcuni testi di Lennon, tra i migliori della sua produzione. John, in questo disco, è davvero in stato di grazia. Non posso non parlarne.

Partiamo da “Norwegian Wood”. La canzone è un po’ come “Come Together”: un lavoro di squadra. Senza gli altri tre, Lennon non avrebbe partorito il gioiello: George contribuì con la bella idea del sitar; e Paul ebbe invece l’idea del bellissimo cambio a 0:30 e 1:20, con i quali la melodia si eleva e trasforma la canzone in uno dei massimi capolavori melodici dei Beatles. Il testo racconta di una scappatella di John. Come dice John Robertson, Lennon in questo testo riesce a unire parole e musica in modo perfetto – e questo ne fa una piccola opera d’arte.

Passiamo a “Girl“. Questa canzone fu scritta all’ultimo minuto, e si vede che la registrazione musicale è molto approssimativa. Il testo invece è fantastico. È Lennon che descrive una donna più forte di lui, la donna forte che lui desiderava, probabilmente in un inconscio desiderio di quella madre che non aveva mai avuto. John, negli anni 70, disse un’ altra cosa: “Questa canzone è una profezia. Sono io che sto descrivendo Yoko, la ragazza dei miei sogni, che conobbi un anno dopo”. In effetti, all’inizio parla della ragazza “che viene per restare”. Bellissima la frase: “Quando le dici che è bella, lei si comporta come se fosse sottointeso”. C’è anche spazio per parlare del dolore come mezzo per arrivare al piacere, ripreso dalla tradizione mistica cattolica, come John disse negli anni 70. Vi invito caldamente a leggerlo.

Ed ecco “In My Life”. Basterebbe ascoltare l’incantevole assolo di piano – idea di George Martin – per conservarla tra le proprie preferite. La melodia non ha, secondo me, la bellezza di “Norwegian Wood”, ma è comunque molto bella. Il testo, in prima lettura, mi sembrò solo una banale canzone d’amore. Leggendolo più attentamente, mi accorsi del capolavoro: è un vero e proprio “crescendo” in cui John parte dall’amore per i luoghi dell’infanzia, poi passa all’ “amore di amicizia”, poi all’amore per la persona amata, e infine all’Amore come tutto. Lennon, esagerando come al solito, lo definì “il mio primo testo davvero importante”.

Vediamo in dettaglio - perché se lo merita. Anzitutto, John parla dei luoghi del suo passato a cui è ancora legato (“alcuni cambiati e non per il meglio”). Poi passa a parlare dell’amicizia e, per la prima volta, ricorda il suo amico Stuart Sutcliffe morto per un tumore al cervello (“Some are dead and some are living”). Poi dice – senza cadere nel banale – che c’è un amore più grande di quello per i luoghi dell’infanzia e per gli amici ed è quello per la persona amata. ("There is no one compares with you").

Lennon, alla fine, eleva tutta la canzone con un messaggio più universale : “In my life I’ll love you more”, ammettendo candidamente il suo egoismo e la sua decisione di amare davvero. In “Because”, su “Abbey Road”, riuscirà a dire la stessa cosa in un rigo: “Love is all, Love is you”. Dell’amore come essenza di tutto, John parla anche nella canzone “The Word” - sempre in “Rubber Soul”. L’amore è diventato per lui “la Parola”.

Infine, “Nowhere Man” (L’uomo che non va da nessuna parte). Questo è un “folk elettronico”, che era la definizione che Lennon dava alle canzoni dei Beatles del primo periodo. Quei coretti con i “la la la” danno alla canzone la cornice di una canzonetta. Il testo è invece uno dei più drammatici da lui scritti. È l’anima spaccata di Lennon. Da una parte l’angioletto (la sua coscienza) gli dice: “Sei un uomo insignificante. Non sai dove stai andando. Non hai un punto di vista. Vuoi vedere solo quello che ti piace”. Dall’altra, il diavoletto (la sua parte godereccia) gli dice: “Non preoccuparti. (Goditi la vita). Il mondo è ai tuoi piedi”. È con questi sensi di colpa che Lennon viveva il suo status di popstar con “il mondo ai suoi piedi”, e con i “privilegi” che ne derivavano. Semplicemente lo sdoppiamento della personalità messo in versi. Questa canzone è la sua terza analisi introspettiva dopo “I’m a Looser” ed “Help!”, ed è un anticipo di quello che sarà la lacerazione interiore cantata in “Strawberry Fields”.

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