La recente ripubblicazione di tutta la discografia ufficiale dei Beatles, rimasterizzata ed imbellettata da accessori vari, sarebbe stata anche un'ottima idea, ma il prezzo esoso e del tutto anacronistico a cui sottostanno questi cd rende tutta l'operazione solidamente antipatica. Se comunque aveste la voglia di sacrificare quasi venti Euro alle avide leggi di mercato, consiglierei di cominciare da questa "Anima di gomma" del 1966 a ragione del fatto che, in tutta la loro discografia, è questo l'album dove si avverte il più netto miglioramento rispetto a quello che lo precede.
Facciamo un po' l'elenco delle novità: la marjuana e l'hashish prendono il posto dell'alcool come "droghe ispiratrici", Harrison e McCartney cominciano a lasciar perdere i rispettivi strumenti semiacustici, buoni per il jazz ed il rock'n'roll ma non sufficientemente corposi per il pop ed il rock, sperimentando qui le prime esecuzioni di Fender Stratocaster e di basso Rickembaker, decisive per focalizzare il proprio suono e stile ed acquisire piena dignità e imperituro rispetto anche come strumentisti. I testi smettono quasi del tutto di essere banali ed ottusi (avvisaglie ve ne erano già state nel precedente "Help") e diventano sovente introspettivi o quanto meno arguti. Si spostano poi decisamente i modelli musicali ispirativi: non solo i grandi americani del rockabilly e del rhytm&blues, ma anche la "concorrenza" più avanguardista: Dylan, Byrds (soprattutto), Beach Boys.
Il disco contiene quantomeno tre capolavori, canzoni la cui influenza, ispirazione, conforto, emozione e piacere per miliardi di persone non temono smentite: in ordine di apparizione in scaletta esse sono "Norwegian Wood", "Michelle" e "Girl".
Il "Legno Norvegese" è nel novero delle più micidiali combinazioni fifty-fifty di genio Lennoniano (la strofa) e McCartneyano (l'inciso). Pochissimi accordi ma di efficacia devastante: comincia Lennon che, giochicchiando come tutti i chitarristi di questo mondo con la posizione di RE maggiore, la quale consente molti rivolti spostando alternativamente la posizione di qualcuna delle dita sulla tastiera, trova all'interno di quest'accordo una memorabile melodia discendente ed ondeggiante di tredici note, entrata da tempo nel patrimonio musicale di tutti, dalla massaia al direttore d'orchestra, dallo strimpellatore sotto l'albero del picnic al trio jazz. Talmente bella che la linea vocale intonata da John non può che seguirne la traccia. Non solo, ma anche George Harrison, imbracciando un inedito sitar, viaggia opportunamente sulle stesse note. Arriva poi il valore aggiunto del Macca, che risolve il ritornello con un passaggio in minore che mette tutto in momentanea sospensione, per poi rapidamente risolversi nell'agognato ritorno all'impianto maggiore, attraverso un LA capace di trasmettere inaudito senso di sollievo e ricovero, ancora e sempre, fosse la millesima volta che l'orecchio si appoggia ad esso (per gli strimpellatori: la canzone in realtà è in MI maggiore, ottenuto dotando la chitarra di capotasto al secondo tasto).
"Michelle" ha tutt'altro tipo di fascino e bellezza, più algida, ricercata, distante, didascalica, specchio del carattere di McCartney, più superficiale e solare rispetto al collega. Siamo in ogni caso nell'empireo della creatività di questo assoluto melodista naturale, capace in quegli anni di gioventù di numeri stratosferici in quanto a inventiva armonica e melodica. Anche l'esecuzione del brano è tutta sua, un po' come era successo sulla "Yesterday" del precedente album, inclusa fors'anche la batteria, dato che vi è un evidente rallentamento di tutta la seconda parte del brano, un'imperfezione nella quale difficilmente un batterista ben più di mestiere come Ringo sarebbe caduto. Pure l'assolino di chitarra, coi toni completamente chiusi, è sicura farina del sacco di Paul.
"Girl" gode di una performance vocale fra le più belle di Lennon, capace di rendere le angustie della classica, dolente ricerca dell'anima gemella con un timbro ed un'interpretazione impareggiabili. Questo ad onta della oltraggiosa "tirata di canna" (energica e lunga inspirazione, colle mani strette a pugno davanti alla bocca) che il beatle s'inventa appresso ad ogni invocazione del titolo del brano, nonchè del coretto in falsetto "Tetta, tetta, tetta..." col quale viene accompagnato dagli altri due buontemponi cantanti del gruppo durante l'inciso risolto a tempo di marcetta. Le due facce di John, la persona malinconica e tormentata, ma al contempo ironica e trasgressiva, procedono perfettamente a braccetto in questa memorabile canzone.
L'album non finisce certo qui, molto stimata è anche "In My Life", cantata principalmente da Lennon ma con la linea vocale risultato di uno sforzo alternato dei due grandi compositori del gruppo. Al tempo molto ammirato, ma a mio parere del tutto fuori luogo rispetto all'atmosfera introspettiva del pezzo, il barocco assolo di piano elettrico "velocizzato", opera del produttore George Martin.
"Drive My Car" è un frizzante inizio d'opera, con chitarra e basso che viaggiano accoppiati in un geniale riff portato alla maniera blues (non ancora alla maniera rock: i suoni non sono spessi e potenti a sufficienza), rinforzato qui e là da uno scolastico ma efficace pianoforte rock'n'roll (suonato da Paul), e rifinito da un'accurata sistemazione dei cori ed da un testo nascostamente volgare.
"Nowhere Man" è all'opposto un quadretto del Lennon più depresso e spaesato, alle prese con un matrimonio ed una paternità infelici, ricolmi di sensi di colpa. I Byrds danno una grossa mano nell'ispirare una produzione di cori particolarmente sontuosa e fiammeggiante.
"The Word" è assai nera, soul, rhythm&blues, per una volta interessante più per le esecuzioni sugli strumenti (Paul e Ringo al loro meglio, creativi ed esuberanti) che per le melodie e le armonie, piuttosto ortodosse e derivative.
Tutto il resto non vale moltissimo:"You Won't See Me" e "I'm Looking Through You" sono due brani di McCartney tra il meditabondo, il risentito e l'incazzoso verso la fidanzata di allora, appoggiati l'uno allo stile di Dylan e l'altro a quello dei Four Tops. "Think For Yourself" e "If I Needed Someone" sono i due contributi di George Harrison e, a dirla con le ottime parole del grande biografo Ian McDonald, "...possiedono un carattere di ostinazione che, unito alla preferenza per le arcigne progressioni, li rendono sgraziati a confronto con la gentilezza delle canzoni di McCartney, ed anemici a confronto con l'animosità di quelle di Lennon".
"What Goes On" è il consueto contentino solista per Ringo, che vi fornisce la solita interpretazione malinconica e giovialmente dimessa, mentre Harrison se la cava qui con l'ultimo assolino rock'n'roll alla Chet Atkins di carriera, prima di passare definitivamente a tutt'altro. "Wait" è niente di più che uno scarto del precedente album e la conclusiva "Run For Your Life" è addirittura irritante, con un testo macho del peggior Lennon ed una bassa qualità esecutiva da parte di tutti.
Il sesto disco in studio dei Fab Four è a mio parere, se non il migliore, il più sorprendente ed entusiasmante, giacché con esso i Beatles cominciano a giustificare appieno la loro già smisurata celebrità ed il fanatismo creatosi attorno a loro, fornendo effettivi numeri d'alta ispirazione, estro ed originalità nell'ambito della musica popolare.
Un vero peccato, infine, che quest'album non includa le due canzoni registrate nello stesso periodo ad Abbey Road ma destinate alla sola pubblicazione a 45 giri, e cioè "We Can Work It Out" e "Day Tripper": due veri gioielli (specialmente la prima, fra le migliori in assoluto del repertorio) i quali, messi al posto di due dei tanti riempitivi, avrebbero reso definitivamente irresistibile "Rubber Soul".
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