Bestie singolari, i The Cure.
Così come singolare è stato il loro ingresso nella vita e negli ascolti di chi scrive.
Per l’intero corso dei primi duemila è stato improbabile pensare di poter sfogliare una sola rivista di settore senza incrociare il nome della creatura di Robert Smith alla voce “influenze dichiarate” per la band di turno in copertina.
Blink-182 ed AFI, Deftones e Linkin Park, Placebo ed Alkaline Trio, Korn e Marilyn Manson e così via, tutti così distanti fra loro eppure tutti accomunati dallo stesso ascendente. Com’era possibile? Non restava che indagarlo per conto proprio.
Immaginate la sorpresa di un quattordicenne nello scoprire che proprio dal catalogo dei The Cure era stata estratta “The Lovecats” come sigla di un - non propriamente fortunato, per questo lo ricordano in pochi - programma per la TV dei ragazzi, oppure che l’immaginifica colonna sonora di uno spot Candy altro non era che “Pictures Of You”.
Due brani, due tinte, due anime completamente diverse.
Così come per “A Forest”, una “Boys Don’t Cry” in post sbornia. Oppure per “A Letter To Elise”, la paranoia dopo gli impacci romantici di “Why Can’t I Be You?”.
Insomma, per padroneggiare con disinvoltura la discografia dei The Cure c’è voluta molta pazienza.
Ma è stato appropriato impiegare anni per riuscirci, perché i The Cure ci hanno messo più di altrettanto tempo per innamorarsi di nuovo della loro musica.
All’epoca di “4:13 Dream” - la bellezza di sedici anni fa - la terra contava quasi due miliardi di persone in meno, potrebbe non essere un azzardo asserire che Smith e soci abbiano tutte le carte in regola per diventare una delle band del cuore per alcune di queste, anche se queste ancora non lo sanno.
Perché che si stia fischiettando il passaggio di "Friday I’m In Love" su una radio di flusso rincasando da scuola o si stia passando la serata a flirtare con il fondo di una bottiglia sulle note di “Disintegration”, i The Cure hanno sempre qualcosa di perfettamente calzante per accompagnare il momento.
E finalmente, in un mondo veloce che consuma musica ed hits come box di sushi ordinati su Glovo, gli ex three imaginary boys sfidano addirittura la morte tornando con “Songs Of A Lost World”.
Scritto, dichiarato più volte prossimo alla pubblicazione e registrato nel corso dell'ultimo decennio, mentre certi spettri aleggiavano lungo i corridoi bui del lutto per la perdita dei genitori e del fratello maggiore di Robert, il ritorno sulle scene ha paradossalmente rischiato di relegarli - artisticamente parlando - all’imperfetto del verbo ‘essere’.
Siamo di fronte all’opera più dark dei The Cure da “Disintegration”, un disco che pare progettato per richiamarne il ritmo glaciale e la natura introspettiva, ma non si tratta di una fatica auto inflitta da parte di una band in declino che ripete i suoi più grandi successi. Piuttosto ha il sapore di un frutto che si è atteso con pazienza di poter cogliere, una libreria assemblata con cura, una collezione completata con passione. È la consapevolezza della maturità.
"Alone” apre la tracklist con eleganza sinfonica, affidando ad una produzione epica ed ai suoi tre minuti di introduzione il compito di dipingere un cielo gonfio di nubi su di un mare pronto a spumare su tutto ciò che può.
"Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo"
Robert Smith impatta così, splendidamente illuminato da quell’aurea di eternità propria di chi non è mai stato giovane.
Ci sono ancora frecce pop nella faretra, è il caso di "A Fragile Thing", nella quale Smith scende a patti col fatto che sebbene l'amore sia "tutto", non c'è "niente che tu possa fare per cambiare la fine".
Ci sono ancora i bagliori arabeggianti dei dischi più fortunati, perfettamente amalgamati con lo stridío metallico delle chitarre della fase 'Robinson-iana', come in “Warsong”.
C’è, naturalmente, Simon Gallup.
E quí bisogna essere categorici: se Smith incarna il cuore e l’anima del suo stesso progetto, Gallup - anche, ma non soltanto - in qualità di sodale di più lungo corso ne è a conti fatti il cervello, abile com’è nel gestire le transizioni fra i diversi registri umorali del primo, anche all’interno dello stesso brano.
“Drone: Nodrone” in questo rappresenta una grande performance. Ora cadenzato, martellante, schiacciante, ora anthemico, debordante, titanico.
C’è il lirismo che ha reso grandi i The Cure: “And Nothing Is Forever” deriva da una serie di circostanze molto specifiche, una promessa fatta a qualcuno di essere lí quando fosse in procinto di morire, ma che per ragioni al di fuori del proprio controllo, non è stato possibile onorare.
Riuscite a crederci?
Una carriera intera spesa a romanzare la fine e poi, quando la fine diventa reale, mancarla.
Quí regge il paragone con “Disintegration”, il prodotto delle riflessioni di Smith sul compiere 30 anni, allora un traguardo inimmaginabile di decadenza.
Nel 2024 è inevitabile che andare in pezzi significhi qualcosa di molto diverso. "Prima scrivevo di cose che pensavo di capire" - dichiaró nel 2019 - "ora so di capirle".
E quando i 10:24 minuti di “Endsong” srotolano il sipario su “Songs Of A Lost World”, se ne puó respirare l’essenza:
"Da solo, senza niente / Alla fine di ogni canzone "
L'ultimo verso del disco chiude un cerchio aperto col primo, un ciclo oscuro che cattura il processo apparentemente perpetuo del dolore.
È stato un lusso assistere da contemporaneo, anziché arrivarci di sponda, alla pubblicazione di due loro album, ed è stato formativo osservare da fuori lo scambio di opinioni dei fans di più vecchia data su quale fosse il miglior 'dopoWish' .
Ma se è vero che - citando John Keats - “bellezza è verità, verità è bellezza”, e se è vero che oggi abbiamo più che mai urgenza di verità, allora ci occorre anche qualcuno che possa guardare il baratro al posto nostro, scrutarlo, indorarlo.
E scriverci canzoni.
Canzoni di un mondo migliore.
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