Da quando, con la sua voce nasale e un po' bambinesca, il professor Colin Meloy ricamava raffinati acquarelli acustici, munito di chitarra e, a fianco, un vero e proprio ensemble di folk d'altra epoca, possiamo davvero dire sia passato del tempo. La metamorfosi, contenuta in potenza già dagli esordi ma manifestatasi interamente, per la prima volta, nel tutt'altro che interlocutorio EP "The Tain", fa crescere ora nuove propaggini che spingono, ancora una volta più in là, il discorso di ricerca ed imbastardimento sonoro del collettivo del Montana. Sui generis, il gioviale e colto menestrello, infiocchettato in abiti un po' ridondanti, e la combriccola di amici musici si sono davvero palesati, con chiarezza inequivocabile, nei panni delle rockstar vintage in tinta con i riff sulla pentatonica ed i watt sollevati a frotte. Ciò non vuol dire, semplicemente, che i Decemberists abbiano rinunciato alla loro insita, bucolica rustichezza, ma che abbiano provveduto ad integrarla con un dark side tanto ombroso quanto, ad un primo acchito, impensabile, per chi avesse vissuto le favolistiche imprese del debutto "Castaway And Cutouts".

Giacchè il tempo è denaro, ma la comprensione di chi legge è aspetto ancor più fondamentale, cercheremo qui di fare un rapido sunto introduttorio all'opera presa in esame. "Picaresque" era il pop/folk addobbato di strumentazione e lasciato correre a perdifiato attraverso le pampas di ispirazione poetica del leader Meloy: "The Crane Wife" presentava ulteriori evoluzioni, miscelando incantevoli ballate voce e chitarra con complessi arrangiamenti, echi di college rock, chitarre pesanti e dinamiche impalcature (non è un ossimoro, nonostante tutto) prog-folk, strizzando in un paio d'occasioni l'occhio ai Jethro Tull. "The Hazards Of Love", rilasciato la scorsa primavera, è, naturalmente, l'ultimo gradino di una scala a chiocciola con crescente approccio di laboriosità e, per stessa ammissione della band, una vera e propria rock-opera con tutti i crismi. Non che fosse difficile prevedere un approdo su questi lidi, anche se era difficile riuscire ad inquadrarlo in un'ottica prettamente temporale. I Decemberists, però, osano davvero molto, costruendo una fiaba del Nuovo Millennio, rivisitazione ad maiora di una Biancaneve tecnologica, qui chiamata Margaret, che si innamora del fauno William: liason, ovviamente, ostacolata dalla madre, Regina dei Boschi, e dal suo sanguinario scagnozzo, indicato come Mascalzone (traduzione più o meno fedele da "rake"), con tanto di finale tragico - ma non è per bastardaggine che ve l'ho svelato: al proposito, la titolazione dell'ultima traccia è eloquente -. Un'ora suddivisa in vari atti, tra scenari di diversa consistenza scenica e sonora, interludi, ponti tra le canzoni, reprise e, come ogni buona opera che si rispetti, voci differenti ad interpretare i personaggi che si avvicendano nella storia. Oltre a Meloy, qui impegnato nel dar parola a William e al Mascalzone, i Decemberists chiedono aiuto a Becky Stark dei Lavender Diamond (Margaret), all'affascinante Shara Worden, one-woman-band dei My Brightest Diamond (Regina) e Jim James dei My Morning Jacket.

Esaurite le prolisse premesse d'obbligo, è tuttavia necessario porre, come punto fermo della recensione, la consapevolezza di ritrovare solo a sprazzi, e mai del tutto compiutamente, la band dei primi passi d'inizio Duemila. È netta, e sufficientemente spiazzante anche per i più aperti, la virata verso un pluristilismo ed un multilinguismo quasi onnivoro e cinematico, se è vero che la girandola di umori e indicazioni dovrebbe suggerire, come primario scopo, l'evocazione visiva pura e semplice. Se riuscite a capire ed estrarre dal contesto l'immaginario parolistico di Meloy, che si serve di un inglese a volte anche parecchio forbito, quando non addirittura elisabettiano, seguire la storia diventerà ancora più avvincente e non mancherà di generare qualche sussulto, nei frangenti più noir e cupi.

L'enorme compattezza di "The Hazards Of Love" è figlia, anzitutto, della grazia strumentale del gruppo, mai su livelli così alti. Ridotti al minimo i siparietti cantautorali, che pure fanno sentire la propria capillare importanza, come su "Isn't It A Lovely Night?", meraviglioso madrigale preso per mano dalla fisarmonica, e su "Annan Water", struggente folk dal testo intensissimo che si candida a vertice del disco, i Decemberists decidono di puntare, più che sull'accumulo singolo di canzoni, sul filo logico che le lega, giocando con i brevi spazi d'interstizio (il banjo in "The Queen's Approach"), con strumentali tanto brevi quanto ricche di contenuto ed impatto (il fingerpicking elegiaco di "An Interlude") o con una serie infinita di cambi di tempo e melodia, come accade nella doppia "The Wanting Comes In Waves / Repaid", botta e risposta inizialmente cesellato e barocco sotto accompagnamento di clavicembalo, poi mutuato in hard-rock muscolare - giusto per permettere l'ingresso di un'aggressiva Worden - e ricondotto infine sui binari di partenza. Non deve affatto stupire l'affastellarsi di episodi al limite del metal ("The Queen's Rebuke / The Crossing", ovvero l'ultimo piano della Regina per impedire il matrimonio tra i due protagonisti, Black Sabbath in salsa Blue Cheer con trionfo di tastiere), anche se l'effetto è talvolta troppo monotono per conquistare (il singolo "The Rake's Song", incalzante ma dalle minime variazioni: ciò che rimane, aldilà di tutto, è lo spietato racconto omicida del Mascalzone, tutto da sentire).

I numerosi excursus acustici dimostrano ancora una volta, però, di che pasta sia fatto il songwriting di Colin Meloy, sicuramente ai primissimi posti fra i migliori autori della sua generazione se non, addirittura, al vertice, per quanto concerne il neo-folk (?) del Duemila. "Annan Water" - sì, la cito un'altra volta - è davvero travolgente, un'invocazione alle acque del fiume per permettere l'incontro dei due amanti, forte di un giro di chitarra essenziale eppure incredibile. "The Hazards Of Love 1 (The Prettiest Whistles Won't Wrestle The Thistles Undone)", chilometrico inizio della saga (se escludiamo il "Prelude" organistico) ha nella sua semplicità, solo leggermente impreziosita da orpelli blueseggianti, il punto di forza: idem per il college rock di "Won't Want For Love (Margaret In The Taiga)", la dedica d'amore di "The Hazards Of Love 2 (Wager All)", impostata sulle graduali sovrapposizioni di voci e chitarre, e "The Hazards Of Love 3 (Revenge!)", valzer interpretato da un coro di bambini che si poggia sulla ripresa del tema di "Wanting Comes In Waves".

La conclusione, a sorpresa, con "The Hazards Of Love 4 (The Drowned)", sentito ritorno alle origini delle ballate minimali, con tanto di violino, è il commiato più efficace per un disco che, inevitabilmente, segnerà un punto di non ritorno per i Decembrini. A leggerne qua e là recensioni su Internet, si è verificato quel che si temeva: la spaccatura, pressochè perfetta, tra detrattori ed ammiratori. Voi scegliete da che parte stare: se con il gruppo autore di "The Legionnaire's Lament" o quello artefice delle nervose slabbrature di "A Bower Scene". Se con la chitarra acustica o quella elettrica, con le canzoni o con le suite, con l'immediatezza o l'elaborazione.

Con ogni probabilità, non si è capito che una cosa non esclude l'altra.

"And take my hand
And cradle it in your hand
And take my hand
To feel the pull of quicksand

I lay you down
In clover bed
The stars a roof
Above our heads
"

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