Sono ormai passati 21 anni da quando Roberto Grillo, all’epoca quindicenne, decise di fondare i The DusT, un progetto musicale coraggioso ed estremamente ambizioso, rimasto tutt’oggi piuttosto inosservato. Le sue fondamenta sono state realizzate traendo ispirazione dal rock britannico degli anni ’70, con un particolare occhio di riguardo verso i Queen, e generalmente, il Glam-Rock e il rock progressivo. Seguendo questa falsariga di strada ne è stata fatta: con cambi di formazione molteplici, che hanno visto Grillo come unico indissolubile caposaldo, sono stati pubblicati dal 2001 al 2014 ben cinque lavori: in God we trust (2001), Golden Horizons (2004), cinema rétro (2005), Portrait of a Change (2010) e Remembrance (2014), tutti autoprodotti. Dopo l’ultima fatica discografica, Roberto Grillo e il chitarrista Michele Pin (all’attivo tra le file dei The DusT dal 2012) decidono di raccogliere nuove energie e, soprattutto, nuovi validi turnisti per confezionare e realizzare, proprio in prossimità delle feste natalizie, The Inner Side (2016), ancora una volta autoprodotto.

Stavolta la formazione è la seguente: oltre a Grillo e a Pin, troviamo Gianni Fantuz alla batteria, Alberto Mazzer al basso e ulteriori collaborazioni, tra cui il pianista Marco Simeoni, Lorenzo De Luca al sax, Mauro Bortolani agli strumenti elettronici, Alberto Petterle al cello, Enrico Sanson al violino e Chiara Marcon come vocalist extra nel brano “(Got To Say) It’s Love”. Già da queste premesse s’intende che anche in The Inner Side, i The DusT abbiano deciso di realizzare le cose in grande, secondo il loro stile; una peculiarità appartenente anche alle band che li hanno ispirati. Il nuovo album continua a battere il percorso ereditato dai precedenti: ogni brano che si susseguirà all’ascolto proporrà soluzione ritmiche e melodiche differenti da quello precedente. “My Own” mescola l’energico Arena-Rock a là Bryan Adams con il Synth-Pop; “Cross the Line (Brazilliant)” scimmiotta (nel senso buono del termine) le tipiche trame melodiche brasiliane seguendo un tema rock che ricorda molto Red Hot Chili Peppers e Toto; “Lost In Flames” è invece una ballata malinconica ed apocalittica in pieno stile Porcupine Tree. “We’re Fighting Till the End” rappresenta invece quello che negli anni precedenti ha caratterizzato l’ending degli album dei The DusT: grandi arrangiamenti di natura epica e rockeggiante, in bilico tra la solennità d’Innuendo e la pomposità offerta dal tipico connubio rock/classica. L’omonimo finale di The Inner Side, invece, si lascia andare in un tono più dimesso e di natura acustica, segnando uno stacco netto ed intimo rispetto al resto dell’album. The Inner Side è un lavoro suonato in maniera impeccabile, che forse si perde troppo nell’autoreferenzialità e nella ricchezza degli arrangiamenti, perdendo l’opportunità di crearsi una propria identità autoctona e indistinguibile: tali aspetti si mostrano come una medaglia a due facce, raffiguranti sia il grande pregio che, allo stesso tempo, il maggior difetto sia di quest’album, sia di quelli precedenti della band.

Ma giunti al sesto lavoro, i The DusT hanno ormai consolidato il loro stile, senza alcuna pretesa di cambiarlo: a Grillo interessa innanzitutto esprimere le proprie passioni in musica, prima che vendere. Forse in un mercato a loro maggiormente appropriato, i The DusT riuscirebbero sicuramente ad ottenere il successo e la visibilità che meriterebbero: l’Italia dei talent, dei gruppetti creati a tavolino e del cantautoriale spicciolo e grezzo, non è un paese per loro.

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