Invalicabili.

Proprio come la cotta di maglia che m'è servita, una volta tanto. Quattro lunghi anni d'attesa ed un collaudo di resistenza prima del miracolo: quello di poter vedere gli Heads in Italia, seppure all’interno di un festival che non era proprio la loro tazza da thè. La quinta edizione dello "Stoned Hand of Doom" fa tappa a Roma e mantiene tutte le promesse del cartello: un mega-carrozzone heavy metal con (a quanto pare) i gruppi emergenti più interessanti del panorama italiano e non.

Sbircio il bancone del merchandising prima d'entrare; una nera trafila di magliette nere e neri dischi dalle poco fantasiose nere copertine interrotta nel mezzo da un'unica esplosione di colore: i vinili degli Heads. 50 euro in pezzi da dieci è il mio supporto diretto alla band; faccio incetta di rarità e 7 pollici prima di capitombolare sotto il palco come un forsennato. Mi becco il finale roboante dei White Hills, una filata glam-psych-stoner che mi gasa come una lattina di chinotto rimbalzata sopra un comodo sterrato.

L'emozione dura poco ma non mi do particolare pensiero per la densa e ripetitiva noia che suscitano prima i nostrani Witchfield e poi tali Serpent Cult. Salto con scotoma negativo fino al soundcheck degli inglesi che escono in contemporanea con la pausa sigaretta/oncia-di-birra dei metalheadz. M'avvicino ai ragazzi indaffarati sul palco, allungo loro una penna con la mia copia di "Tilburg", scambio due chiacchiere con il bassista Hugo Morgan ed il chitarrista Simon Price, complimenti a go-go mentre la mia copia torna indietro autografata da tutti.

E' il top, sono pronto. Io vi aspetto, sto qua.

Paul Allen è un ciccio strepitoso tutto preso dal mettere i pedali in serie, sulla sua maglietta c’è scritto "psychomania" and Everybody Knows perché.

Simon si gira e si soffia il naso, forse con lo stesso fazzoletto lo vedo pulirsi gli occhiali e quell’aria da plurilaureato ad Oxford scompare definitivamente quando attacca la chitarra: è lui il tecnico rumorista upgrade 2.0 e non una sola nota intelligibile uscirà dai suoi monitor, solo un magma continuo di fuzz, feedback e delay infiniti a coprire tutto il resto. Attaccano con una intro spaventosa di accordi modali che cresce in una marcia psichedelica di distorsioni volte a pettinare la folla: chi era venuto per il Doom s'allontana con un'emorragia nasale.

A seguire pranzo al sacco nell’area dell'Heavy Metal con un blocco unico da 20 minuti tripartito in "Cardinal Fuzz/Widowmaker/Could Be" che spara a tutto fuoco una pastura di fuzz sciolto nel rock'n'roll e lievitato nel kraut da togliere il fiato senza neanche la gratificazione degli applausi. Istantaneamente indici e mignoli tesi nelle mani come emiparesi scompaiono in tutti quelli che mi circondano. Hugo e Wayne, basso e batteria, manovrano i tempi e danno le dosi, Simon e Paul cantano due sillabe in tutto e per la restante mezzora sfondano gli amplificatori testando la resa sonora del locale e dell'intero quartiere tuscolano.

"Roba Nuova"  vs. gli acufeni dei presenti, strutture freeform ossessive che s'allungano come code di lucertole autonome su due/quattro/sei/otto riff tutti insieme, poi "Heavy C" e finale in gazzarra sulla lunghissima "Spliff Riff" dove, di grazia, il professor Allen ci concede una scintillante dimostrazione di talento torturando istericamente per cinque minuti la sua chitarra per poi accasciarsi a terra a smaneggiare i pedalini in un deliquio fuzzedelico.

Concerto del mese (e salvo improvvisa pioggia di rane) dell’anno.

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