“I sotterranei vellutati della nostra psiche”

Un frullato di banana perverso e rumoroso; un succo di suoni, lirico e dolce. Per la prima volta nella storia del rock, per di più in un momento delicato, complesso ed esplosivo del mondo giovanile, si dà voce alle interiorità più oscure della mente umana e della città gotica moderna. Per la prima volta si canta la malavita, per la prima volta si colorano con una musica viola i sotterranei. Ma soprattutto, per la prima volta non è la musica a essere spacciata come droga, ma la droga a essere venduta come musica.

Nel ’67, dopo due anni di rodaggio tra clubs e difficili tentativi di emergere dai boccali di birra nei pubs della periferia di New York, Lou Reed (voce e chitarre), Sterling Morrison (chitarre), John Cale (viola) e Mo Tucker (batteria), ovvero i Velvet Underground (hanno preso il nome da una rivista pornografica), l’anima vellutata della bassa New York, pubblicano il primo album della breve carriera, grazie anche al maestro della Pop Art Andy Warhol (Exploding plastic inevitabile, questo è il nome del progetto artistico musical-figurativo della Factory), che li riesce a portare quasi alla fama e mette nelle loro mani la musa fatale , già modella e attrice (comparsa nella Dolce Vita di Fellini), Nico.

La confondibilissima voce di Lou Reed apre il disco con la solare Sunday Morning, ballata quasi pop dal retrogusto amaro che sa di post sbornia della deprimente domenica mattina dopo un sabato notte alcolico e lento. O meglio, è un "restless feeling by my side", una sensazione di agitazione qui accanto, un presentimento incipiente; con il brano successivo, "I’m Waiting For The Man", questo sentimento si trasforma in realtà, una realtà oscura e perversa, una realtà di snervante attesa in un vicolo buio. Lou Reed strascica la sua voce dove e come lo spacciatore trascina i suoi passi, prima sul marciapiede macchiato di prostituzione, poi su per le tre rampe di scale, fino alle più recondite cantine della nostra mente, quelle degli eccessi dall’aria viziata. Sarà proprio nella cover del ’72 che David Bowie, nello Ziggy Stardust tour, trasformerà lo spacciatore in un implicito boyfriend, e altri non è che Lou Reed, dal momento che cambia il testo da "I’m just waiting for a dear dear friend of mine" a "I’m just waiting for a velvet friend of mine".

Ma ecco entrare in scena Nico nei panni del suo personaggio più riuscito, la "Femme Fatale", nella lirica canzone dall’omonimo titolo. La sentiamo arrivare, la sentiamo cantare, e già sappiamo che succederà, sappiamo che la sua voce ci incanterà e ci spezzerà il cuore, ma è una sirena, e alle vellutate sirene non si resiste, perché ci struggono dentro queste voci e questi cori con le loro tonalità sensuali, dolci, amare, luminose, oscure. Nemmeno i REM seppero resistere, e ne incisero una splendida versione live in uno dei loro primi album.
L’incontro con la femmina fatale diventa con Venus In Furs ("venere in pelliccia") un’esperienza sensuale intensa e malata, dolorosa ed estatica. Si cantano le fruste, gli stivali di cuoio, i peccati più crude, in un climax di sadomasochismo dove Nico è la "mistress", l’amante padrona e dominatrice, mentre Reed interpreta Severin, il servo. Nella sua voce si può sentire il freddo della manette attorno ai polsi di Severin, mantre nella viola di Cale si percepisce lo schioccare della fruste sul corpo. Man mano che si procede, è un climax di eccitamento, dolore, perciò ”strike dear mistress and cure his heart” così come Cale colpisce le sue corde e cura il nostro cuore in un ritmo sempre più sfrenato, ossessivo, concitato, rumoroso, malato e perverso ma sempre lirico, come "differenti colori fatti di lacrime".

Si calmano i bollenti spiriti e si butta acqua sulle corde infiammate con il blues psichedelico Run Run Run e si avverte una certa sacralità nel brano seguente, All Tomorrow’s Parties, cioè tutte le feste cui dovrà partecipare Nico novella Cenerentola. Notevole in questa canzone l’uso delle percussioni etniche, e dei cori iniziali che sanno d’incenso, ma è l’incenso con cui la piangente Cenerentola profuma la sua tenda indiana, la sua stanza (nel senso di strofa).

Ma a questo punto si inserisce il brano più devastante di tutto il disco, Heroin. L’impatto è dolce e arpeggiato, ma presto diventa un confuso balbettio di sensazioni di eroina che scorre nelle vene, di stridii mentali, di viaggi psichici. Ci si allontana apparentemente da questo mondo, si cerca di immaginare se stessi marinai del proprio io, ma le visioni non sono liberatorie o rivelatrici,assolute e divine come quelle avute da Jim Morrison, sono devastanti, nichiliste ("nullify my life"), l’unica cosa che svelano in fondo è la solitudine dei bassifondi, la cattiveria del vivere comune, l’ipocrisia della normalità… e la bugia che si racconta a se stessi. L’eroina qui è morte ("heroin be the death of me"), compagna di vita, anzi è vita ("heroin, it’s my wife and it’s my life"), e finisce solo che rimane il silenzio dell’anima, il caos del cervello in una convulsione quasi epilettica.
Il tutto si scioglie con due pop songs dal gusto dolciastro e violaceo: "There She Goes Again", veloce e munita di irresistibili coretti, riprende il tema della femme fatale, mentre "I’ll Be Your Mirror" parla dell’amore saffico come riflessione di se stessi, una riflessione avvolgente e tiepidamente minacciosa.

Si arriva così ai due brani finali, quelli del disco che più si lanciano in uno sperimentalismo sonoro che ispirerà generazioni di artisti. Con The Black Angel’s Death Song abbiamo uno strano e ritmico strofeggiare (??????) di Reed, quasi balbettante ma sicuro e micidiale nelle sue rime, come sono micidiali e insistenti i getti di vapore tra una strofa e l’altra, mentre la viola continua a lanciare i suoi urli e i suoi sibili al cielo e ai posteri; ancora più lancinante, stravolta, travolgente e rumorosa è la creazione che chiude l’album, European Son, che conta di una breve parte parlata e di una lunga coda strumentale.

Come quest’ultima invenzione, così è la carriera dei Velvet Underground: una breve strofa iniziale corrisponde alla loro durata nel panorama rock (dal ‘65 al ‘70) e alla loro produzione ufficiale (solo 4 album), ma il seguito strumentale è tutta l’importanza che hanno avuto nei decenni a venire, sia come spinta di innovazione del rock, sia come ispirazione per moltissimi cantanti e gruppi (come Bowie, REM, Smashing Pumpkins, per non parlare di tutta la no-future generation… non è stato Brian Eno a dire "chi ha ascoltato nel ‘67 il primo disco dei Velvet, ha poi fondato una rock band"?). I Velvet non solo sono stati un ottimo trampolino di lancio per Lou Reed e John Cale, ma forse anche il punto più interessante della loro arte. Questi ragazzi di New York hanno dato voce ad un panorama sotterraneo che prima non si poteva nemmeno immaginare, sono stati rivalutati soprattutto negli anni 90, con l’uscita ufficiale di molti bootlegs live e studio, con le citazioni da parte di varie indie band, con la rinascita artistica dello stesso Lou Reed.
E, cosa più importante per tutti i fan, verranno ricordati per aver suonato le corde più perverse e profonde dei sotterranei vellutati della nostra mente.

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