Questo disco è stupendo, chiaroscurale e sadico come pochi altri. È un disco di pura plastica. Plastica perché prodotto in una società asettica, grigia; plastica perché è l’opera prima di un genere non passionale, ma omicida, freddo come plastica. La musica è oscura, a volte fastidiosa e da incubo. Si concede però alcuni strappi puramente melodici e assolutamente pregiati.
Cominciamo da questa minoranza; l’introduttiva “Sunday Morning” è polistirolo melodico. È un carillon perverso che si diverte a illuderci. È una caramella dolcissima con dentro del veleno. È come coprire un taglio profondo e infetto con un fiocco. La trovo fantastica, quasi masochistica nella sua bellezza. Già da qui si può intuire che questo disco è puro eccesso, pura esagerazione; nulla si trattiene nell’essere normale, ogni cosa è sospinta al massimo del suo potere psichico e uditivo. Un’altra perla melodica è “Femme Fatale”. Ricamata su un tessuto morbido, ma freddo al tempo stesso, vede Nico protagonista, in una dolce e sincera interpretazione. Coretti in apparenza felici accompagnano il ritornello. Inspiegabile quella sensazione di romanticismo al catrame che mi trasmette questo brano, davvero immenso.
“I’ll Be Your Mirror” è il brano meno soggetto a contaminazioni plastiche e chimiche, è il brano più classico e semplice del disco, il più naturale. Pura dolcezza, senza possibilità di replica da parte degli strumenti affilati del gruppo. In mezzo ai primi due pezzi c’è “I’m Waiting For The Man”, brano oserei dire inerziale, segue un battito fisso di batteria con suoni acidi e dolci che ci ricamano sopra. La musica qui non è plastica, ma ferro, ferro arrugginito che sfrega di continuo su una superficie scabra. Reed non sembra cantare, parla in modo molto ritmato e concitato, con la sua voce brutale e senza fronzoli, sferzante. È uno dei pezzi più famosi del gruppo.
“Venus In Furs”, un brano dai testi chiaramente sessuali, è già deserto puro. La viola elettrica disegna paesaggi desolati col suo incedere funereo, orientaleggiante, disperato e cupo, da cane malato. Ci pensa poi Reed a costruire sopra questa veduta arida la sua nenia funebre, eccitante e anche liberatoria negli sprazzi ariosi. È un capolavoro, così bella e intensa da andare aldilà della pura percezione uditiva, questo è un piacere oscuro, perverso. Richiama sensi nascosti nel profondo, li libera. Ecco, è liberatoria. Nel suo opprimere dà sfogo a desideri e bisogni nascosti. Io la considero pura poesia del XX secolo.
“Run Run Run” è un brano più convenzionale, nel senso che non ti stravolge come il precedente ma è un ottimo brano Rock n’ Roll. La viola ricama continuamente sulla base di basso e batteria. Lo stravagante assolo malato nel mezzo scava solchi circolari, a spirale, inchioda, riparte acutissimo fino a dissolversi su se stesso e scomparire lentamente. Anche la parte vocale è ottima; si sente come in lontananza, come cantare nella nebbia della città, con le note che si disperdono tra i fumi e le ombre. “All Tomorrow’s Parties” è come un inno. La musica qui si fa meno acida e più avvolgente, meno soffocante e più oscura, e ci lascia alla melodia di Nico, così ondulante e insicura, così precaria e ferma…
“Heroin” è droga. Non una canzone, ma un viaggio fatto per endovena nella mente e nei muscoli di un uomo che si droga, uno qualsiasi. La musica in realtà è il battito cardiaco e le parole non sono altro che l’inconscio di quell’uomo. Non hanno pudore Reed e soci. Si permettono anche di sbeffeggiarci, facendoci soffrire, e attaccano dolcemente, con lenti battiti e dolci note. Battiti che aumentano in simultanea alle parole che si accendono, che confessano e un po’ tentano di giustificarsi, un po’ si compiacciono del male. Le note di viola sono addirittura allegre, è un contrasto stridente, inconcepibile, frutto di un sadismo radicato nei musicisti e quindi nella musica. La canzone prosegue così fino al momento in cui viene pronunciata la parola “heroin”, detta così lentamente e con compiacimento da far rabbrividire... Il brano sale di tono, si perde in se stesso e nelle sue distorsioni, nei suoi battiti concitati fino a diventare come una lama che però subito si frantuma e finisce in nulla… rimangono i battiti e le note dolci a farci sembrare che non sia successo niente. Un po’ come la droga, ci ha illuso, si è divertita con noi e poi ha negato ogni cosa…
D’inferior livello significativo è “There She Goes Again”, anche perché dopo un tale brano sarebbe difficile fare di meglio. Resta però una bella canzone semi-spensierata, sembra la parodia del beat anni sessanta. La linea musicale varia tra parti fluide e blocchi ritmici; suggestivo il contrasto dei coretti con la musica spesso fredda. Come il tentativo di fare un ombrellone da spiaggia con del cemento.
“The Black Angel’s Death Song” inizia come un vespaio che ti assale; la musica sale e scende di continuo, la pressione si alza, perdi i punti di riferimento, inizi a vedere sbiadito. Non è un brano cantato, è piuttosto un’invocazione, uno spigoloso discorso interrotto da quel suono di ferro incandescente immerso in acqua. È un brano febbrile, dà sinceramente fastidio. È chiaro che non è un brano nato come tale, ma piuttosto è un angoscioso componimento accompagnato dalla musica più rivoltante e ripugnante, metropolitana e grezza che ci fosse. Ti gira intorno di continuo, poi si ferma, ma tu sei talmente ipnotizzato che continui a girare, assorbito dal suono, e quando il carillon si spegne ti accorgi della tua stupidità, debolezza e insensatezza. La musica dei Velvet Underground è come un grande sorriso sadico che ti sbeffeggia per tutto questo, si compiace nel vederti atterrito e cerca anzi di darti il colpo di grazia.
Il disco si conclude con “European Sun”, altro viaggio nefasto tra l’immondizia e il sadismo umano. Parte però allegro, certo con quella vena maledetta che distingue il gruppo. Poi si rompe una vetrata, c’è del trambusto e il brano inizia a correre su binari ispidi, pericolanti. Questo viaggio sembra non aver ritorno a sentire i vagiti distorti, confusi, maledetti. Procede velocemente, non si guarda indietro, non ha paura di ciò a cui va incontro. È un brano radicale, rumorista, sconfortante fino allo sfinimento; ci sono momenti in cui chiedi pietà, ti inginocchi e domandi perdono, speri che questa punizione diabolica finisca al più presto. Stridente fino all’inverosimile, senza capo ne coda, è praticamente un incubo…
Difficile fare commenti generali sul disco perché, data la sua ricchezza e complessità, si finirebbe per tralasciare qualcosa. Restano solo le undici canzoni di cui è composto, a volte tetre a volte apparentemente dolci, ma così sincere che finiscono col diventare il manifesto di un’epoca, di un modo di vivere e in definitiva, di uno stato della mente… Credo che sia il miglior disco mai fatto, dipende certo dai gusti, ma rimane comunque tra le opere musicali più espressive, crude e lucide dell’ultimo secolo…
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