Se negli anni sessanta è esistita un'alternativa al mainstream pop dei Beatles e dei Beach Boys, questa è certamente da ricercarsi nei solchi di questo misconosciuto capolavoro degli inglesi Zombies. Non tragga in inganno il nome che si sono dati, poiché la loro musica non evoca certo panorami spettrali, quanto un edulcorato pop dalle tinte leggermente psichedeliche.

Datato 1968, questo disco ci consegna una band al capolinea, frustrata da un successo che la dea commerciale gli aveva eternamente negato. Ma forse è nei momenti più bui e disperati che si giocano le carte migliori, quando ormai si sparano le ultime cartucce consapevoli che sono proprio le ultime. Il singolo "Time Of The Season" (qui contenuto), che nel suo incipit ricorda vagamente la celeberrima "Stand By Me", seppur in ritardo, li fa conoscere al grande pubblico e li costringe per un breve periodo, quando ognuno ormai aveva intrapreso i propri sentieri, a una improvvisa, quanto irrisolta, reunion.

Stupisce non poco il fatto che, ad oggi, quasi nessuno si ricordi di loro, quando i Beatles e i Beach Boys sono, giustamente, assurti al ruolo di intoccabili. Voglio esagerare: al di là dell'impatto sociale e del ruolo storico avuto, mi azzardo ad affermare che i Fab Four, pur avendo disseminato una miriade di formidabili singoli, non possono vantare un lavoro sulla lunga distanza così omogeneo e convincente in toto. Sulla scia di band coetanee, come Kinks o Pretty Things, gli Zombies dipingono un surreale affresco pop composto da dodici canzoni che teoricamente potrebbero essere altrettanti potenziali singoli. Ma forse l'accostamento che maggiormente evoca "Odessey And Oracle" è quello con "Forever Changes" dei Love. Due gruppi legati e ricordati per un unico grande album.

Anche nelle sonorità, se vogliamo, possiamo sentire echi di un Arthur Lee sul fronte meno psichedelico, sebbene gli Zombies e nella fattispecie Argent e White, giacché sono loro i compositori, penso che abbiano passato notti insonni imparando ogni singola nota di "Pet Sounds". Stessi intarsi vocali, stessi intrecci di canti e controcanti con sempre una tessitura melodiosa di prim'ordine contornata da hammond, mellotron e campanellini per costruire un'opera pop destinata a lasciare il segno o a farsi dolcemente scoprire dai pochi (molti?) che ancora li ignorano.

Alfabeticamente andrebbero collocati, in una ipotetica discoteca ideale, agli ultimi posti, ma noi aggiriamo l'ostacolo e li cataloghiamo cronologicamente accanto ai maestri, degni di stare al loro fianco.

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