È quello che è: una tautologia vuota. Suonerebbe come una resa all'imperfezione e al sacrificio della compiutezza. Oppure come captatio clementiae per un prodotto di spregevole fattura, dal mixaggio ballerino (ancora e nientemeno il sodale Flying Lotus, capomastro della Brainfeeder), alla masterizzazione trascurata (Daddy Kev), al supporto fisico inadeguato (nella sezione recensioni su Discogs fioccano le lamentele per storture e vari crac). Magari addirittura uno sprezzo: è quello che è, a me piace così, non rompete i coglioni.
Supposizioni a parte, resterà fitto il mistero intorno alla cosa che è, forse il punto da cui è sprigionata la forza centrifuga di questo disco ciclonico che segna il ritorno di Thundercat, il bassista più importante della sua generazione.

Come se Drunk (2017, ne parlavamo qui) non avesse già chiarito che Thundercat sia nel profondo un idiosincratico marcio, tutt'altro che bendisposto verso il pubblico: dietro i falsetti ammiccanti; sotto la livrea di un immaginario Nintendo/anime/samurai/space cowboy, che tanto fa kawaii, abbinato alla presenza un po' goffa da bardo del basso a sei corde.
Captando l'attenzione fin dal titolo esplicito, impattante e monosillabico, Drunk la ricambiava con lo sguardo di un alligatore a fior d'acqua; la disorientava poi in un caleidoscopio di tutti i colori della black; la assaliva infine con una Them Changes o una Show You The Way, le hit perfette, ammantando il resto in una coltre di bassi pulsanti, ricchissimi, inafferrabili. Tanto per non lasciare niente a una facile e serena fruizione, si spalmava su quattro dischi, senza alternativa.

It Is What It Is è animato dalla stessa cronica idiosincrasia, una forza respingente alimentata dal potenziale delle contraddizioni. La principale: ci si aspetterebbe una cura maniacale della resa sonora da un disco che fin dalle prime battute si presenta pesantemente prodotto, nell'orchestrazione elettronica di Lost In Space / Great Scott / 22-26 e nella fusion virtuosistica eppure d'atmosfera di Innerstellar Love, che si collocherebbero a proprio agio in una discoteca tutta Herbie Hancock e Weather Report, svecchiandola; l'aspettativa è costantemente disattesa, e basti sentire lo stacco bruciante di compressione tra Funny Thing, Overseas e Dragonball Durag, in apertura del lato B, per avere la sensazione di un best of mal curato che peschi qua e là da decenni diversi. E mentre Dragonball Durag sembra implorare passaggi in rotazione con il suo ammaliante r'n'b, si contorce e accartoccia su se stessa, non risolve mai il giro, si preclude lo status di canzone relegandosi a puro sound.
E ci si aspetterebbe una ballata (con tiro) come seguito ideale di Innerstellar Love, in terza traccia, certo non la sfrecciata uptempo di I Love You Louis Cole inseguire in corsa il suono dello Spazio.
Il Thundercat/Bowser di King Of The Hill si fregia della partecipazione dei Badbadnotgood, salvo sfregiarla in un boom bap decisamente lo-fi, il kick su un binario parallelo: la divora da buon villain con un ritornello incantevole, algido, da manuale. I'm king of this castle, I'm king of the hill. Divorati dal basso anche Childish Gambino, Steve Arrington e Steve Lacy su Black Qualls, altro potenziale supersingolo che si gioca col mixaggio eventuali velleità da classifica. E Kamasi Washington, il re del be bop contemporaneo, evanescente anch'egli, irretito dal fraseggio forsennato di Thundercat.

E per questo forsennato fraseggio ci si augurerebbe una trasparenza di suono che ne valorizzi il tocco sopraffino, carico di feel, di inflessioni diverse che pure tradiscono un accento inconfondibile. Ma anche dov'è più vicino al cuore della sua musica, Thundercat innalza barriere, gioca a nascondersi tra un'equalizzazione in eccesso di medie qua, di basse là; un uso indefesso dell'autowah, che è quanto di più demodé; un dietro quando lo si desidererebbe davanti e viceversa; ora un acciaio sul legno nudo, ora solo un impulso elettrico. Come se dietro quest'esibizione divertita di maschere covi uno sberleffo a tutti i paladini del riccardonismo plug dritto all'ampli and play, ai puristi e ai manieristi, ai Joe Dart.
Mentre al manierismo sono improntante le linee vocali, il suo falsetto maturo, tanto più frivolo e vezzeggiativo quanto più la materia paia farsi sentimentale.

Tenteremo di carpire la cosa dietro il continuo stendere note su note su note, di canalizzare l'urgenza che accidentalmente genera canzoni; magari di coglierla come sintesi di tante contraddizioni: ne verremo sopraffatti.
Forse la cosa è una volontà pura, simile a quella che secondo alcuni è bastata a generare un universo. Può darsi che Stephen Bruner stia espandendo il suo per rintanarsi al centro e chiudersi come un gatto in una scatola con la pistola e il gas velenoso, dieci dita e il basso. Quello che succede dentro è questione di probabilità, è quello che è, e non ci è dato sapere.

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