C'è quest'uomo sotto quest'ombrello tentacolare, dentro una foto sbiadita che una volta era in bianco e nero, mentre ora è solo in grigio chiaro e grigio scuro. E' solo, per la strada sterrata non c'è nessuno e lui, dentro il suo pastrano nero e le mani in tasca, guarda a sinistra, oltre l'orizzonte intrappolato dalla foto. Guarda oltre e sembra sereno, forse solo pensieroso, ma talmente pensieroso da non darlo a vedere..
"Non ho sposato un uomo, ho sposato un mulo"
Un mulo con del catrame bollente e vibrante in gola, cazzo.
Un mulo che, da qualche parte nell'immensa campagna americana, si siede su una seggiola di legno mezza scassata e registra un disco; così, perchè gli va. Ha un paio di pezzi pronti, chiama qualche amico storico e registra, magari con le galline che gli scorrazzano in mezzo ai piedi. Ne escono fuori queste fotografie sgranate e traballanti, questi negativi violentati dal sole, questi ricordi cha sanno di Bourbon e sigarette, ottimi compagni per qualche rimpianto sopito e malinconico.
Si mette seduto sotto un portico e racconta.
Racconta come gli è sempre venuto naturale.
Racconta di cigli della strada, di case abbandonate, dove non ci vive più nessuno, che sembrano abitate dai fantasmi, le finestre rotte, le vernici scrostate e gli uccellini nel camino. Racconta dei suoi viaggi intorno al mondo e delle strade che ha preso, sperando che il suo pony sappia riportarlo a casa; ci tira direttamente dentro il tendone di un circo per farci vedere il bambino senza corpo e con solo un occhio che fa impazzire le donne; si commuove per Georgia Lee, trovata morta in un boschetto, quando la notte era fredda, la terra era dura e lei troppo giovane per essere sulla strada. Si arrovella la testa sul suo vicino, si chiede cosa diavolo stia costruendo la dentro, fra strani rumori, aggeggi, lamenti...
Ci racconta tutto questo con la sua musica, che, questa volta come non mai, ondeggia fra rock distorti e sbraitati ("Big in Japan", "Filippino Box Spring Hog") ballate per piano ubriaco ("House Where Nobody Lives", "Picture In A Frame") e blues gracchianti che sembrano essergli stati sussurrati dalle miti colline indorate di grano della vecchia America ("Chocolate Jesus", "Cold Water", "Black Market Baby"). La sua voce scoppia, saltella, sibila, sbraita, sussurra, si impenna, sa accarezzare e allo stesso tempo spaventare; la sua voce diventa lo strumento per eccellenza in queste canzoni, il filo conduttore di queste mille storie, la bomba carta e il clarinetto di cui sono intrisi i versi di questi pezzi.
Per queste sue "Mule Variations", Waits torna indietro nel tempo, ritorna all'America delle radio enormi e a valvole, ai circhi, ai paesi di campagna, ai film in bianco e nero, alle cascine, agli animali, al silenzio di una vita vissuta in modo tranquillo, ai ritmi di 40 anni fa, se non di più; ritorna al canto delle piantagioni di cotone, alla semplicità delle cose, all'ingenuità, alle stranezze dei paesini sperduti fra i campi, ritorna ai raccolti e agli spaventapasseri, ai cartelli stradali sgangherati e dispersi e alla polvere, al tabacco da masticare, alle estati torride e agli inverni da geloni ai piedi; ritorna al Blues, al canto ferito di chi non ha più nulla e continua a cantare, ritorna alle sue radici con una foga e un'ispirazione mai viste prima.
Quando finisce "Come On Up To The House" e tutto è finito, lui è lì, col cappello in mano, fra i campi, mentre tutto si sta oscurando, come in quei vecchi film, quando, alla fine, l'inquadratura si annerisce e compare la scritta "The End". Questa volta guarda dritto davanti a sè, ma è gia proteso ad andare, a partire un'altra volta, a lasciare di nuovo tutto.
Lui se ne va, se tu vuoi seguirlo, bene, se vuoi rimanere lì, fai pure, lui di certo non ha cantato per te.
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