"Che "Toto XIV" sia la cosa vicina ai nostri classici è innegabile. Autocelebrativo? Forse, ma chissene frega: non dobbiamo rendere conto a nessuno." (David Paich, 2015)

Assistiamo oramai regolarmente alla riedizione di tanti dischi classici e non, in occasione delle varie ricorrenze dalla pubblicazione originale. Operazioni ben studiate dalle case discografiche che puntando più sulla benevola affezione dell'appassionato che al fine di catturare l'interesse di una generazione più favorevole al procacciamento della cosiddetta musica liquida, danno alle stampe almeno almeno una rimasterizzazione del prodotto originale in molti casi arricchita di bonus tracks, o addirittura impreziosita da un dischetto aggiuntivo di live versions, rimaste ancora vergini nei forzieri della fortunata label.

Per quelle band che hanno la fortuna (e volontà, sì proprio così ...) di essere in circolazione, anziché acconsentire sommessamente (e diciamolo pure, senza un grammo di fatica) alla più semplice operazione di recuoero, hanno il coraggio di guardarsi indietro a quanto di buono fatto, traendone la stessa linfa vitale per un nuovo prodotto genuinamente originale.E' il caso dei Toto che nonostante le molteplici peripezie attraversate negli anni (dai cambi di cantanti e alle perdite di Jeff e Mike Porcaro), dopo l'altalenante album di covers di THROUGH THE LOOKING GLASS (2002) ed il solare FALLING IN BETWEEN (2006) che ha sancito la rinascita artistica del gruppo, pubblicano un nuovo disco in grado di rispettare le aspettative di affezionati fans ed estimatori della buona musica, che lo attendevano.

Il suono di XIV è impostato su una personale elaborazione di chiara matrice AOR, in cui confluiscono tutti quegli elementi stilisticamente distintivi che hanno contribuito negli anni a caratterizzare un amalgama musicale eccellente e mai superbo. Gli undici brani presentati, provano che siamo di fronte ad una band padrona e consapevole di poter suonare musica piena di emozione e passione, senza ricorrervi per adombrare una capacità creativa forse affievolitasi con gli anni. Non mancano perciò di essere ascoltate le sonorità levigate degli esordi e quegli stacchi ritmici in grado di far sposare jazz e rock in una combinazione apparentemente del tutto naturale, in cui melodie elaborate fanno da collante al tutto. Con "Holy War" le sferzate di Lukather possono anche rievocare una "Afraid of Love", come la drammaticità di "Unknown Soldier (for Jeffrey)" ben rimanda la mente alle affascinanti sonorità di THE SEVENTH ONE (1988) e dedicata allo storico batterista scomparso nel 1992, mentre la semplicità di "The Little Things" sintetizza adeguandola ai tempi, una vena prettamente pop che solo le vocals di Steve Porcaro potevano deliziare senza sfociare in una sterile mellifluità. Non mancano le ballate e "All the Tears That Shine" rappresenta una tra le più belle canzoni di sempre di David Paich che la interpreta in maniera magistrale, deliziandoci ancora nelle magiche tinte west coast di "Chinatown" (scritta nel 1978 ... ) in cui divide il microfono con Joseph Williams e Lukather.

E' un album genialmente Toto sotto tutti gli aspetti, in cui il gruppo si riappropria di se stesso ed elabora con eleganza un sound circolare, definendolo al meglio secondo il respiro odierno. Un perfetto equilibrio tra brani elettrici e ballads di pregio, cesellando i brani con una finezza ed una coloritura musicale sempre di alto livello. Ne è prova la poliritmica di "Orphan" che ha anticipato l'uscita del lavoro, trasudando impeto e tormento, mentre la cavalcata di "Running Out of Time" gli fa meritare il ruolo di opener, lasciando la chiusura del disco a quel riuscito compendio di varietà stilistica che è "Great Expectations" le cui incisive sfumature ne mettono in luce un humus emotivo di derivazione prog, per cui il gruppo ha sempre mostrato una naturale inclinazione.

Lungi dall'operazione studiata a tavolino, il nuovo disco si giova della rentrée a tempo pieno di Paich (che nel 2006 si allontanò per problemi strettamente familiari) al fianco di Lukather sempre stabile al timone, ma anche quella ventata positiva giunta dal ritorno dietro al microfono di Williams e da quello di David Hungate - l'indimenticato bassista dei primi quattro album, - per alcuni brani. Una tracklist che merita di essere assaporata in ogni dettaglio, cercando ancora oggi di gioire di un' incontenibile esclusività artistica,. impensabile dopo quasi quaranta anni, anche per quei due membri (Lukather e Paich per l'appunto ...) della stessa band che agli esordi decise frettolosamente di darsi il nome della cagnolina di Dorothy de "Il meraviglioso mago di Oz".

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