Il 1066 fu indubbiamente un anno colmo di eventi, soprattutto in Inghilterra, dove il duca William di Normandia, sbaragliando l'esercito sassone di re Harold II nella celeberrima battaglia di Hastings, si impadronì del trono inglese, dando così inizio all'unificazione di quelli che fino a quel momento non erano stati altro che un insieme di principati perennemente in conflitto tra loro, estremamente lontani dal concetto di stato-nazione che la sovranità normanna avrebbe da quel momento in poi introdotto nel territorio inglese.

Ma cosa succederà mille anni dopo? Quali eventi caratterizzeranno lo svolgersi dell'anno 2066? Purtroppo non ci è dato saperlo, ma di una cosa siamo a conoscenza, ovvero di come, nel 1971, in Germania, il cantante Geff Harrison (di origine inglese), il chitarrista Gagey Mrozeck, il bassista Dieter Baucer, il batterista Konstantin Bommarius, i tastieristi Veit Marvos e Steve Robinson (o forse dovrei dire Rainer Geyer?), con l'aiuto del flautista Wolfgang Schöonbrot e del secondo batterista Curt Cress, realizzarono "Reflections on the Future", unica prova dei Twenty Sixty Six and Then (2066), i quali, a dispetto del nome, andarono incontro al loro amaro destino, comune a moltissime altre formazioni dell'epoca, già l'anno seguente la pubblicazione di questa misconosciuta quanto suggestiva mistura di rock con punte decisamente hard, progressive e una leggera spolverata di psichedelìa impreziosita da sapori cosmici di chiara targa teutonica.

Quella che mi appresto ad illustrarvi non è comunque l'edizione autentica dell'LP, praticamente introvabile viste le sole mille copie esistenti, ma la riedizione in CD stampata nell'89 sotto il semplice nome di "Reflections", per mano della Second Battle, distinta da un particolare alquanto bizzarro: non contiene nessuna registrazione presente nel vinile originale. "Come come!?" Direte voi.. Ebbene sì. Il fato, crudele più che mai, volle, all'epoca della ristampa, che le registrazioni originali (appartenute alla deceduta United Artists) risultassero perdute per sempre, costringendo così gli addetti ai lavori ad usufruire di versioni alternative e premature delle tracce incise diciassette anni prima. Ciò che ne uscì fu un album composto da brani più lunghi ed azzardati, da un audio non proprio eccelso e da alcuni pezzi rimasti a lungo inediti, poiché utilizzati in precedenza come singoli o semplicemente scartati dalla scaletta prevista per la prima versione del disco.

"At My Home" apre l'opera in maniera grintosa e trascinante, grazie ai ricorrenti intrecci fra la chitarra e l'organo hammond, alle incisive apparizioni del flauto e alla voce roca e potente di Geff, che, grazie ad un'interpretazione intensa e struggente, si mette in primo piano anche nella malinconica "Autumn", in cui risplende pure il reparto ritmico, con la batteria di Konstantin sempre pronta e scattante ad ogni cambio d'andatura, cosa che d'altronde avviene di nuovo, nonché in maniera particolare, nella variopinta "Butterking", dove solo le tastiere della premiata ditta Veit & Steve, tramite un dirompente assolo nel cuore della composizione, reggono il confronto con le bacchette del sopracitato e preparatissimo batterista.

La title track offre numerosi spunti solisti, sia per la chitarra graffiante di Gagey, particolarmente mordace verso metà traccia, sia per il basso di Dieter, spesso in evidenza mentre detta il ritmo con i suoi toni oscuri e a tratti opprimenti, sia per le solite e pazzesche tastiere, le quali, oltre ad essere autrici di un numero impressionante di fughe sparse per tutto lo svolgersi del brano, si dilettano anche, verso il termine dello stesso, nella realizzazione di un inquietante e quasi disturbante trip lisergico, che trova il suo habitat naturale negli inospitali e selvaggi territori situati al limite estremo dell'ascoltabilità.

La partenza sconcertante di "The Way That I Feel Today" spiazza l'ascoltatore con la propria straripante energia e lo catapulta verso sonorità jazzate, dominate dal basso, dalla batteria, ma soprattutto dal fenomenale flauto di Wolfgang e dal suono vivo e penetrante del piano, splendido nel suo maestoso incedere lungo le parti in cui la voce di Geff pare aver bisogno del suo supporto. La lunga e strumentale "Spring", forse in debito di un po' di mordente, vede ancora una volta le tastiere sotto i riflettori, in questo caso addirittura signore incontrastate del pezzo che, a causa della sua prolissità, non ci stupiamo di non scorgere nella versione originale del disco, orfano anche dei due singoli "I Wanna Stay" e "Time Can't Take it Away", il secondo decisamente più interessante del primo.

Ma insomma, cosa dire a conclusione di questa verbosa quanto chilometrica disamina? Bèh, che ci troviamo senza ombra di dubbio di fronte ad un lavoro imponente, singolare, audace, di innegabile valore e che, nella sua prima quanto, ahimè, irreperibile versione, meriterebbe molto probabilmente non meno di cinque rifulgenti stelle.

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