"Se sono io colui che non mi consente di essere io, a che cazzo serve l'io?". Con queste parole che richiamano ironicamente quelle di Peter Hammill in "A plague of lighthouse keepers", il mio amico Marco annunciava sempre "Pawn hearts" prima di metterlo sul piatto.

Non lo ascoltavamo spesso, non eravamo così raffinati, non ancora.

"Ascoltate stronzi che questo è un cazzo di poeta, anche se non grande quanto me", proseguiva.

"Ascoltate il casino che fanno gli altri, anzi non casino, rumore...un gran bel rumore...poesia e rumore cazzo...altro che quei segaioli dei Floyd..."

Aveva ragione, che se poi vi capita di guardare sul tubo il video di "A plague of lighthouse keeper" registrata dal vivo alla tv belga nel settandue, vi accorgerete che anche il poeta all'occorenza smanacciava forsennato sui tasti della sua pianola.

E, ne converrete, son soddisfazioni quando il più grande paroliere del rock si sporca le mani facendo il terrorista sonico.

In ogni caso era un bel tipo Marco e fantasticava spesso sul musicista più eccitante dei Vdgg, David Jackson, un lungocrinito sassofonista di due metri e passa, favoloso e pittoresco, coi suoi occhialini e i suoi buffi cappelli; un cugino alla lontana di Otto e Barnelli, caricatura splatter dell'eroe kraut rock, mezzo freak e mezzo biker.

Un tipo fantastico da contrapporre a molti degli pseudo eroi del periodo. "Se questo incontra Merlino in un vicolo lo fa a pezzi", diceva sempre Marco. Cosa impossibile in realtà, visto che il nostro era, ed è, un noto gentiluomo. Ma il suo aspetto a dei ragazzini, quali allora noi eravamo, faceva pensare cose così.

Merlino era ovviamente Rick Wakeman. E tra i miei amici molti erano adoratori di Rick Wakeman, che d'altronde vinceva sempre il referendum di Melody Maker come miglior tastierista.

Si, era un bel tipo Marco e faceva parte già allora del partito "Kafka vs Tolkien", secondo la felice definizione della musica del generatore data non so più da chi.

Son bei ricordi. Ma riguardo "Pawn hearts" non so da dove cominciare.

Proviamo con "Man-erg".

Immaginate una melodia essenziale, una di quelle che, pur non prive di una certa dolcezza, si fanno da subito ideale scenario, come una specie di ring dell'anima, per un corpo a corpo con se stessi

E immaginate che quella melodia accompagni una voce pacata e appena appena dolente. Che è questo che succede in Man- erg, almeno all'inizio.

All'inizio si, poi subito si cambia e si passa dall'elegiaco al drammatico. E' un classico trucchetto da ballata hammiliana, con quel piano sottilmente metafisico e la voce che, camaleontica, passa rapida da un registro all'altro, visitata da presenze di opposta e inconciliabile natura.

"Man-erg" è quella del celeberrimo incipit "The killer lives inside me" e racconta della schizofrenia dell'individuo perchè all'assassino si accompagnano gli angeli, "Angels lives inside me".

La dicotomia oltre che dalle parole è rappresentata da quella voce che, da pacata che era, sale ad altezze vertiginose a partire dalla fine del secondo verso di ogni strofa e precisamente dalle parole "room" (la stanza dove l'assassino dorme) e "mind" (la mente del protagonista).

Nel terzo verso, dove l'intensità del canto è già divenuta insostenibile. gli occhi dell'assassino (non più addormentato) guardano attraverso i nostri e l'amore degli angeli guarisce le nostre ferite. Ma andiamo avanti. Che non è questo il punto.

Alla fine della seconda strofa sale in primo piano l'organo e sembra quasi avere una funzione pacificatrice, come se le due parti avessero in qualche modo trovato un accordo. Ma è solo un 'impressione. Che una favolosa, eccitante e sinistra cacofonia free form irrompe con inusitata e splendida urgenza: parte rimbalzando da un canale all'altro, forse per essere sicura di svegliare i morti, e si assesta in un pestare e soffiare all'impazzata.

Che c'è persino la chitarra di Robert Fripp a menar fendenti.

E cazzo, è proprio quel tipo di suono che, per usare le parole dell'Iguana, ingoia la sofferenza tutta intera. Magari solo un tantinello più cerebrale rispetto agli Stooges. O un tantinello e mezzo fate voi. In ogni caso l'effetto è devastante.

Non bastasse, ecco le urla dello sciamano. "Sono davvero io? Sono qualcun altro?"

Ecco, è questo il punto. Questa frattura violenta. Questo improvviso passaggio dal melodismo (sia pure come abbiamo visto, un melodismo tutto particolare) al caos. Che è una cosa che fa, letteralmente, saltare dalla sedia e che c'entra davvero poco, per non dire pochissimo, con quel genere a cui i nostri vengono solitamente ascritti, ovvero il rock romantico, come si diceva ai miei tempi, o progressive rock come si dice oggi.

(E sia chiaro che con progressive rock io intendo solo quello inglese -Canterbury esclusa)

Certo, nel generatore troviamo alcuni degli aspetti classici (e spesso deleteri) del progressive: una assoluta lontananza dalle matrici nere e ritm'n'blues, una notevole complessità musicale e, non ultima, una pretenziosità mica da ridere. Solo che in "Pawn hearts" non si ha mai la sensazione che il passo sia più lungo della gamba e siamo davvero assai lontani da barocchismi e stucchevoli esibizioni di tecnicismo.

E, riguardo alla pretenziosità (che come altro si può chiamare anche il solo pensare di poter scrivere un brano di ventiquattro minuti ventiquattro infarcendolo di un lungo poema che nemmeno William Blake) be' se la pretenziosità porta a un suono teso, aspro, vibrante e al gusto per una sperimentazione mai fine a se stessa, ma anzi finalizzata a una drammaturgia che sembra stare all'incrocio dei venti o in quel corpo a corpo esistenziale che dicevamo, beh ben venga.

Oh si, ben venga.

Che il fatto è che Peter Hammill è un grande poeta. E i famosi cambi di tempo del generatore, tutte quelle improvvisi accensioni, i riff assassini, il caos clamoroso (eccetera eccetera eccetera) sono sempre funzionali a quel che le sue parole dicono.

In "Man-erg" il caos e il canto stregonesco semplicemente dicono l'angoscia di non sapere chi si è e lo fanno con un suono che, come il blues, come il folk, come il rock più disperato e potente, altro non è che disperazione e cura della medesima. Ecco qualcos'altro che nel progressive più bieco è totalmente assente, la potenza e la catarsi.

Confesso di non aver ascoltato questo disco per trent'anni. Non so cosa me ne tenesse lontano. Forse la sua complessità e il suo concedere poco all'ascoltatore. Forse quella poesia da posseduto. Forse il fatto che lo devi ascoltare tutto dall'inizio alla fine. E alla fine ci arrivi stremato.

Comunque l'altro giorno ho ripreso il vinile e, vi dirò, è stata una delle più belle esperienze di ascolto della mia vita...mi ha riportato ai miei sedici anni, a quel periodo pre punk, in cui Hammill e Fripp erano i miei eroi...al mio amico Marco che traduceva i testi dell'Hammill solista, trascrivendoli con la sua meravigliosa grafia in piccoli fogli bianchi che mi regalava...ai misti di Hammill su cassetta C60 che mi faceva chiamandoli tutti "Exercises in solitude"...

Mi ha riportato ai miei sedici anni, si...ma mi fatto anche sentire il generatore come mai prima...che a sedici anni preferivo "Over" "In camera" "Fool's mate" "The future now"...

Che poi comunque vien da chiedersi come diavolo potessero ascoltare Hammill tre ragazzotti di sedici anni le cui massime esperienze culturali fino ad allora erano state Alan Ford e Cochi e Renato? Nulla sembra davvero più lontano dai sedici anni.

Ma torniamo a "Man- erg".

Dopo il caos, torna il tema iniziale irrobustito e elettrificato, con la voce che ha una elegantissima virile nonchalance e un sax morbido quasi jazzy che si prende la scena...poi un sempre più ricco stratificarsi di suoni, e un ritorno del caos assassino, come ovattato però, e ingentilito da una ricchezza melodica che lo ingloba...alla fine le due anime un accordo finiscono col trovarlo...o forse è solo, come dice Hammill, che la sua condizione di uomo è quella di tutti, angeli, assassini, redentori, dittatori, rifugiati...

Cazzo, che capolavoro...il problema è che gli altri due brani son pure meglio.

Il primo, "Lemmings", é un iniziale arpeggio d'acustica e leggera, sinistra elettronica, con la voce di Hammill (prima acuta e femminea e subito dopo grave e severa) che arriva in un attimo a una specie di culmine che esplode nel solito magistrale riff assassino, la voce sempre più potente a reggere il corpo a corpo di tastiere e fiati...poi una prima pausa atmosferica, organo delicato e ancora arpeggio d'acustica, fa sembrare che tutto si plachi... arriva però una devastante chitarra (almeno credo) che da il la a un devastante free form meravigliosamente dissonante che via via porta a un frenetico jazz disturbato e di nuovo al riff assassino iniziale...

In tutto ciò la voce di Hammill continua a saltellare tra le ottave e quello che fa in mezzo alle terrificanti distorsioni free form ha del portentoso e io non lo so spiegare. Da un esperto allora prendo allora un "alterna dinamiche di timbro e potenza in una frazione di secondo".

Il brano poi si chiude in uno spegnersi atonale e rumoristico che è anche un meraviglioso riposo dopo tutto quel caos. Senza si arriverebbe con l'acqua alla gola.

Ok manca l'altro brano. Ma come faccio a dire qualcosa su quella specie di mostro che occupa tutta la seconda facciata? Sarebbe meglio non provarci nemmeno. Ma tant'è.

Che qui, rispetto agli altri due, il corpo a corpo è assoluto, l'atmosfera più rarefatta e notturna e la bellezza delle parole stupefacente. Un soliloquio in dieci stanze su solitudine, maschere, identità, incubo, terrore, memoria.

Tutta una serie di ballads perfette, con accompagnamento ora atmosferico, ora devastante. Solo che la devastazione cresce su stessa e dalle macerie nascono altre macerie. Non c'è un attimo di riposo oppure ce n'è magari qualche milione, solo che ognuno di essi è troppo breve.

Da alcune melodie salvifiche, da quella voce che riesce anche a essere angelica ricavi solo l'illusione della tua difesa, ma è un illusione disillusa perché sai bene che tra un po' arriverà l'ennesimo colpo, anche se quello definitivo non c'è mai e si è come sospesi in una malatissima estasi ambigua. Del resto non c'è musica che rappresenti meglio scissione, dicotomia, ambiguità di quella dei Van Der Graaf Generator.

I momenti che mi commuovono di più, anche se devo dire che è un ben strano tipo di commozione, sono quelle ballads che dicevo. Specie "(Custard's) last stand", primo perché è bellissima, con quell'organo piangente e Hammill al massimo della sua rassegnata dolcezza e, secondo, perché è schiacciata tra i due moloch del disco, il finale furioso di "Presence of the night" e "The clot thickens" che ha per protagonisti una voce schizzata, follemente tenorile e il caos assoluto.

Poi certo l'iniziale "Eyewitness", con quelle note iniziali di piano che già da sole danno il tono dell'intero brano...con quel cantato severo, ora acuto, ora profondo contemporaneamente retorico e antiretorico...con quel coro di voci infantili (che poi altro non è che la voce di Hammill sovraincisa non so quante volte)...con quel clamoroso crescere di intensità...con quei due tre minuti di suoni liquidi, desolati, notturni, metafisici a rappresentare un panorama spoglio e totalmente privo di illusioni ma anche un momento di riposo in cui sentire l'eco profonda di quelle parole di solitudine...con quel ritorno al tema di partenza, come se adesso fossimo di nuovo pronti a sentirlo...

Ma non c'è una sola parola che non sia scritta col sangue, non un solo suono che non sia essenziale.

Lo zio Julian ha definito "A plague of a lighthouse keeper" "un cazzo di mostro pagano: brandelli di brutalià primitiva attaccati l'uno all'altro, resi ancora più misterici dal fatto di avere ognuno un titolo".

E, si, un cazzo di mostro pagano mi sembra una buona definizione...

Se non avete mai ascoltato questo disco, fatelo...

Carico i commenti... con calma