Introduzione:

I newyorchesi Vanilla Fudge furono, nel loro periodo di gloria verso fine anni sessanta, una specie di Dream Theater di quel tempo: musicisti spettacolari ed innovativi ma senza adeguato spessore tematico, perciò inutili oppure veneratissimi a seconda del punto di vista, della sensibilità e delle priorità musicali di chi si accostava a loro.

Ai tempi, essi erano insomma lo stato dell’arte del rock in quanto ad abilità strumentale. Applicavano tale forte personalità e destrezza esecutiva più che altro ai generi hard rock e rock blues, piegandoli alle loro urgenze virtuosistiche (ispirati in questo da Cream e Jimi Hendrix, soprattutto), ma anche alla ricerca di nuovi suoni, nuovi impasti, estemporanei arrangiamenti, contaminazioni psichedeliche, elaborate armonie vocali.

Il tutto era però reso decisamente velleitario da un'altrettanto estrema carenza concettuale, di direzione, di progetto, unita ad una debole ispirazione compositiva... insomma badavano più a stupire come esecutori ed arrangiatori che come autori. Non per nulla il loro repertorio era farcito di cover, col costante artificio di renderle stravolte e spettacolarizzate il più possibile.

Vi sono sempre stati, nella storia del rock, i gruppi “per musicisti”, per i quali primo e talvolta anche ultimo aggettivo che viene in mente è “bravi”. Gente come Mothers of Invention, Mahavishnu Orchestra, Yes, Rush, Toto, i già accennati Dream Theater. Tutti questi nomi sono più o meno in possesso anche di altre virtù, ma per tutti essi salta all’orecchio la particolare perizia e insistenza strumentale. Ebbene, Vanilla Fudge è stata la prima di queste realtà, seguite ed invidiate non certo per il repertorio, ma per come lo suonavano. Senz’altro ispiratori di gente come Deep Purple, Black Sabbath, Uriah Heep, Grand Funk, insomma il meglio del rock duro e del proto metallo nascente colla nuova decade settantiana.

Anche da noi in Italia vi furono ammiratori/imitatori convinti, e mi riferisco ai New Trolls soprattutto: la loro “La prima goccia bagna il viso” è una spudorata ricerca delle atmosfere e delle intorcinate sequenze vocali e strumentali caratteristiche dei quattro americani in questione. Gli stessi Led Zeppelin, che nella loro prima tournée oltre Atlantico di inizio 1969 facevano da apripista ai loro concerti, presero utili lezioni di abilità e naturalezza sul palco. John Bonham in particolare era ben attento a non perdere un gesto del loro batterista Carmine Appice, facendosi dare diverse dritte per ampliare e perfezionare tecnica ed equipaggiamento (in particolare era entusiasta della destrezza colla quale Carmine afferrava i piatti colle mani subito dopo averli colpiti, bloccandone il suono per creare innaturali e spettacolari sincopi nella ritmica dei pezzi).

Il tutto non durò per tanto tempo: tre anni dal ’67 al ’69 e cinque dischi. Alla lunga, tutti i complimenti degli addetti ai lavori e gli occhi sbarrati dallo stupore di chi aveva la ventura di vederli suonare (tipo al solito festival italiano, stavolta non Sanremo ma la veneziana “Gondola d’Oro”... ma ne riparlo dopo) non riuscirono a surrogare le carenze concettuali già accennate e la loro stagione finì all’alba dei settanta, col loro testimone preso saldamente in mano da altri.

Contesto:

“Near the Beginning” è il quarto album di carriera e risale ad inizio 1969. I Beatles (fra i loro ispiratori principali, come per quasi tutti) erano a quel punto ancora insieme e ben produttivi, circondati come sempre da massimo rispetto e immutata venerazione, ma a quel punto non più avanguardia, non più santoni da inseguire e assorbire in tutto e per tutto ma “solamente” consacrati maestri e pionieri da tenere in considerazione si, ma senza più pendere soltanto dalle loro labbra e gesta.

Il panorama della musica popolare intorno ai Beatles si era infatti irreversibilmente espanso in quegli ultimi anni: dai pochi rivali faticosamente impegnati a stare alla loro altezza (Stones, Beach Boys, Who, Dylan) si era passati a un bell’affollamento di nuove avanguardie: Cream, Doors, Mothers, Moody Blues, Procol Harum, Zeppelin, Creedence… ed anche Vanilla Fudge, i quali però non riuscirono a mettere insieme almeno un super disco, un capolavoro capace di sollevarli ad un ruolo importante e duraturo nel tempo, come invece accadeva a tutti gli altri.

Punti di forza e lacune:

Anche questo lavoro, pur fra i loro più riusciti, non può assurgere al novero degli imperdibili essendo interessante, piacevole, teneramente esplicativo di come si faceva e si registrava musica rock alla'avanguardia ai tempi, ma niente di basilare e memorabile. La sfilza di gruppi elencata poc’anzi stava facendo, o aveva già fatto, ben altro per meritarsi gloria eterna. I virtuosistici Vanilla Fudge invece qui non trovarono di meglio, dopo aver riempito la prima facciata di tre estese ed organiche composizioni (solo una di esse farina del loro sacco), che risolvere la seconda con una lunga jam session dal vivo di oltre ventitré minuti, ovviamente tediosa senza speranza.

Vertici dell’album:

Dei quattro soli episodi presenti nel disco due sono forti, fascinosi e riusciti, gli altri due assai di meno.

Cominciamo da “Some Velvet Morning”, il brano che li fece conoscere anche in Italia. Dicevo di Venezia: questa “Gondola d’Oro” era il premio in palio in quel fantomatico “Festival Internazionale di Musica Leggera”, in pratica al tempo la manifestazione numero tre per importanza in Italia (essendo la numero due il Disco per l’Estate e la numero uno l’universalmente celebre Festival di Sanremo)... insomma trattavasi della solita kermesse italica col presentatore alla moda di turno e con la non secondaria virtù di essere dal vivo, senza playback.

Ebbene, nel 1969 qualcuno invita i Vanilla Fudge a gareggiare a Venezia… sconosciuti outsiders americani che chissà quale astrusa convenienza commerciale destina all’inopinato atterraggio da noi. Quand’è il loro turno attaccano risoluti gli strumenti agli amplificatori e sparano senz’altro davanti all’attonito pubblico, benpensante e canzonettaro, nove minuti e rotti di questa psichedelissima suite hard rock proto progressiva, derivata da un’eterea ed innocua canzonetta pubblicata un paio d’anni prima dal suo autore, certo Lee Hazlewood, in coppia con Nancy Sinatra figlia di Frank.

Testo oscuro al limite dell’insulso come d’obbligo nella psichedelia, nenia lenta e ipnotica… i Vanilla Fudge la rivoltano come un guanto rispetto all'originale con tanto di pienoni strumentali, corde di chitarra tirate allo spasimo e basso distorto, cori gospel/liturgici a quattro voci, sciabordate a piene mani di organo Hammond.

Gli astanti, impreparati a tanta energia e potenza, insomma al rock quello vero non quello moscio di Little Tony, Celentano, Rokes e Caselli, restano impietriti dallo stupore mentre il “bravo presentatore”, ossia l’ignorantissimo Mike Bongiorno, è tutto piccato perché quei quattro sconosciuti energumeni gli stanno facendo fare brutta figura, con tutto quel “fracasso”. In effetti, dopo i Mino Reitano e i Johnny Dorelli accompagnati da pettinati orchestrali vestiti tutti uguali, pantaloni colla riga e giacche ricamate, questi quattro picchiatori di strumenti in jeans e maglietta svaracchinata paiono atterrati da Marte.

E la giuria del Festival li premia! L’ignorante consegna loro, suo malgrado, ‘sta benedetta Gondola d’Oro... uno dei quattro se la mette sotto braccio, ringraziano e se ne vanno e nessuno li vedrà mai più dalle nostre parti. Ma il loro piccolo, grande contributo alla causa del rock in Italia è ormai cosa fatta: la trasmissione è in diretta Rai sul primo canale e chissà quanti ragazzini quella sera hanno cambiato all’istante gusti musicali. Il riscontro è notevole e la canzone va nella Hit Parade italica per qualche settimana, così diversa da tutte le altre che la affiancano in classifica. Pionieri!

La versione in studio che c’è sul disco è più a meno la stessa di quella sera a Venezia in termini di struttura, chiaramente meno potente, urgente e aggressiva. Dura oltre sette minuti ed è senz’altro qualcosa di unico e ben distinguibile da qualsiasi altra canzone, probabilmente il vertice di carriera del gruppo se non altro per originalità. Un grazie ancora ai Vanilla per questa cucchiaiata di rock versata sull’ancora quasi incontaminata scena italiana del 1969.

L’altro episodio notevole, proprio l’unico firmato da un elemento del gruppo e precisamente dal paisà Carmine Appice, è la lunghetta ed articolata “Where Is Happiness”, una specie di suite hard rock psichedelico progressiva che risolve un’apertura strumentale aspra e metallica, scopiazzata clamorosamente dalla pinkfloydiana “A Saucerful of Secrets”, con un arpeggio chiesastico d’organo, buono anche per sorreggere il caratteristico canto ovattato dell’organista Mark Stein, poi raggiunto dagli altri per gli abituali cori gospel/liturgici.

Il brano più in là s’allunga in un impetuoso duetto all’unisono fra chitarra ed organo, roba al tempo del tutto avanguardistica e perciò prodoma alle numerose cavalcate progressive che avverranno di lì a poco, quelle fra Howe e Wakeman, fra Blackmore e Lord, fra Banks e Hackett, per dire. La chitarra viene lasciata libera d’improvvisare sugli accordi della tastiera e la ritmica galoppante, fino alla sua catarsi costituita da stridenti e liriche note sugli accordi ora quieti, ora staccati, ora arpeggiati. Il tutto in intenso odore di fine anni sessanta, di alba del rock strumentale, di inizio dell’era più gagliarda e feconda per questa musica.

Il resto:

Il resto… mancia! l’apertura “Shotgun” è un rockblues alla Cream con la stessa ottusa pervicacia strumentale: pedale wha wha come se piovesse, stacchi trafficati di batteria, brevi e spezzate frasi blues urlate dal batterista Appice, animale molto più blues e molto meno psichedelico del suo organista come il resto della sua carriera ampiamente dimostrerà. Insomma bombastico e tedioso rock bluesato, energico ma formulaico, "clichéoso".

Il pezzo finale “Break Song” poi, ventitré abbondanti minuti costituenti come già detto l’intera seconda facciata dell’originario ellepì, è un purissimo riempitivo, niente di più che una jam session dal vivo che si sviluppa da un breve tema corale poi riproposto in chiusura, alla maniera jazz. Nel mezzo, di tutto e di più: improvvisazioni di chitarra su ritmica boogie appoggiata, successivo assolone di basso ultra distorto e scorreggione, susseguenti liquide corse di mano destra sulle tastiere dell’Hammond, accentate alla perfezione dal quel batterista che già a ventidue anni metteva paura. Seguono una cantatina in stile vecchio blues lento (“Babe, babe, babe…” eccetera), nonché l’immancabile e inevitabilmente tedioso assolo di batteria, condito dei rallentamenti e successive accelerazioni di rito, e per epilogo un finale orgasmico e fracassone.

Giudizio finale:

Disco non imperdibile ma… utile, una pagina chiara ed esplicativa di come si faceva musica a quel tempo, e poco altro. Con il valore aggiunto costituito, come già spiegato, dalla peculiare e fascinosa atmosfera di “Some Velvet Morning” e soprattutto di “Where Is Happiness”, canzone al quale sono particolarmente legato perché ad inizio anni settanta veniva continuamente programmata in filodiffusione.

Ero un pischello giovanissimo al tempo…In casa non avevamo questa benedetta filodiffusione però il secondo programma della radio, ad una certa ora di sera più o meno dopo le ventitré, si collegava col "quinto canale" di ‘sta filodiffusione per quasi un’ora, fino al giornale radio della mezzanotte. A quell’ora il programma filodiffuso si chiamava “Quaderno a Quadretti” ed era l’unico, fra tutti gli altri che si susseguivano ciclicamente, a proporre musica pop e rock, musica inglese e americana d’avanguardia.

Ebbene, io quasi ogni sera mi ritrovavo a letto nella mia cameretta, colla radiolina sotto il cuscino accesa al minimo volume, ad ascoltarmi quella dozzina di pezzi della mia amatissima musica, per poi spegnere l'apparecchio all’arrivo del notiziario ed addormentarmi. La scaletta ovviamente cambiava ogni sera ma numerose canzoni ricircolavano spesso... il programmatore Rai forse non aveva una vasta discoteca a cui attingere o magari aveva i suoi gusti o la sua pigrizia, non so.

So però che in questa maniera ho avuto i primi contatti con decine di gruppi e di canzoni memorabili che ancor oggi mi porto in dote, fra cui la suddetta “Where Is Happiness”, perla di questo disco da quattro stelle dei mitici Vanilla Fudge, gruppo di virtuosi suonatori privi di concettualità, però onesti e simpatici.

A quest’ultimo proposito cito una dichiarazione di Carmine Appice: “Ad inizio 1969 arrivarono negli Stati Uniti i Led Zeppelin ad aprire i nostri concerti e… ci asfaltarono! Ma era giusto così… un mese dopo il loro arrivo eravamo passati noi ad aprire i loro concerti! Eravamo bravi, ma qualcuno più forte di noi, più intenso di noi, più potente e concreto di noi doveva venire, ed è stato bello e giusto che fossero loro”. Grazie paisà, sei un signore!

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