Excusez-moi, où est la Ville Nellcôte ?

Potrebbe trovarsi ovunque, in qualsiasi luogo appena scosso dal crollo polveroso della Torre di Babele e di tutte quelle leggi bizantine. In qualsiasi luogo sperduto nel sud della Francia. Oppure in Kansas, dove corpo e anima, affranti da un dualismo incompatibile sono entità solubili ed in “Exile”, ai confini di quella Polis. In quella villa ducale con quelle solenni colonne ioniche ed una Saison en Enfer nel seminterrato. Ritrovo solidale per caldo ipnotico e donne stregate, dove i soldi avevano smesso di comprare altri soldi, dove lavorare aveva perso ogni significato, dove poeti e santi in cerimoniale loop ripetevano versi che avevano dimenticato di comprendere e sacerdoti teatrali erano manifestanti spogli di ogni sacralità.

Thomas Jefferson Kaye era un predestinato, prossimo a fratellanze con artisti del calibro di Donald Fagen e Gene Clark. I White Cloud erano quella sua creatura adolescente, un dolce impasto di southern rock all’ombra di quella nuvola, di quel chiarore bianco che rendeva così scintillanti ed invisibili. E proprio partendo da quell’emisfero nevoso alle pendici di quell’Eden, White Cloud si apprestava per uno strano gioco del destino a far capolino in quelle afose catacombe stonesiane di Villefranche sur Mer. A prestare il fianco a quel suono sporco, svezzato dal fine labour pianistico di Nicky Hopkins, quel potente disordine mentale che frastornava quel soggiorno in Cote d’Azur.

Rocks Off e All Down the Line il sabba infernale che diventa primordiale, in quella dolce tempesta ai piani inferiori di Nellcôte.

Come tutti ben sanno la grossa virtù delle nuvole è che confondono i sensi, poi se sono bianche rendono invisibili. E poi, puoi anche rubare quello che vuoi, indisturbato... Anche il segnale telefonico diventa debole, un’impresa farsi capire per un mandriano come Thomas in quell’interurbana, da quelle pietre rotolanti inglesi, dicevano di suonare nel sudicio scantinato di Nellcôte un blues ruvido con derivazioni soul e ritmi gospel from Louisiana, di avere casini con il fisco. Ma Thomas capì ben poco da quella telefonata, comprese solo che quei tipi strani avevano problemi con l’ernia del disco, ma poco importa, i tipi in gamba non hanno bisogno di comprendere a pieno le cose.

Anzi si muovono meglio tra idee fumate e sfumate.

White Cloud è anima sinuosa e strisciante tra le aride terre del Kansas, ha la pelle dura come la fantastica cover della prima ed introvabile edizione del vinile rivestita da pelle di pitone. Vive di un’americanità fiera e indomita, un sentimento solo surreale che sembra trafugato da qualche romanzo di letteratura romantica e mimetizzato invece tra reali bidonville, nomadland e grandi sogni marciti a scadenza. Come se questa band avesse depositato al Monte dei Pegni quelle autorevoli stimmate di cui si fregia, per ritagliarsi un domani un futuro lontano da ogni gerarchia di arte e potere. Viene esaltata dal canto potente e Joplinesque di Joanne Vent, autrice di quel gioiellino soul 70’s di The Black And White Of It Is Blues, nei momenti di apnea viene portata in superficie dalla trainante chitarra di Charlie Brown, nei momenti di stasi viene aggredita da felini raptus di ragtime & bluegrass di Eric Weissberg. Nelle catacombe, insieme alla muffa ed a qualcosa di inevitabilmente sinistro, si cela talvolta anche un sottotesto divino, seminascosto tra fili di luce bianca cosparsi di polvere, che bucano quelle fessure nella pietra secolare. Non si spiegherebbe perché Keith Richards dopo un’altra notte dannata riesca in un amen a raggiungere l’Eden sobillando quelle prime e magiche note di Tom and Frayed...Si può fuggire dalla morte, da quei freschi cadaveri di Altamont e Brian Jones, rifugiarsi dentro una prigione sotterranea, ma il dialogo con Lui resta sempre aperto e quella discesa negli inferi era stata pianificata anche per affrontarLo, vis a vis.

E da quella luce offuscata di Exile On Main Street, il nostro Thomas Jefferson Kaye pur non avendo capito un’acca da quella telefonata trova più di una ispirazione, da quelle perfette partiture ritmiche di Funky Bottom Congregation, gioiellino di crossover tra James Brown, Motown & Stax Records, il brano con il più sfacciato flirt con il Black Power e con un pattern ritmico frutto di un magico jeu d’ensemble. Ma se l’ouverture di All Cried Out è Neil Young all’alba a colazione dai Grateful Dead, la sincera empatia con Exile è veramente evidente in Thanks For Nothin, con sdolcinate carezze sognanti di slide guitar che richiamano il magico stile di Mick Taylor e la conclusiva The Sun Don’t shine the Same, che con eleganza si congeda con una ballata corale in downtempo, nella parte centrale esaltata da una lodevole pièce di violino e dal canto di Joanne Vent. Se per uno strano scherzo del destino qualcuno dovesse poi innamorarsi veramente di questo album, non ne parli con nessuno e dica che è stato solo un sogno.

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