I Wo Fat credono nel Riff.

Partiti dai pub malsani e fumosi di Dallas con un carico pendente di birra, wah wah, passione e coglioni astro-spaziali, hanno attinto dai '70 tutto il loro fetore, hanno preso appunti dai maestri blues immersi fra i boschi del delta del Mississipi, hanno fatto proprie le arcaiche arti di registrazione analogica e di amplificazione valvolare. La musica dei Wo Fat (il monicker altro non è che la trasposizione del cattivo immaginario con gli occhi a mandorla dell'agghiacciante serie televisiva Hawaii Five-O) è musica soverchiante che rimane perfettamente ancorata al paradigma dei padri ispiratori (Sabbath, Mountain e ZZ Top) ma permette, al contempo, il jamming più squilibrato, la massima libertà d'improvvisazione possibile. Il risultato sono i 46 minuti di ''The Black Code'', miscela psichedelica di turgido heavy-rock, polveroso blues e corpulento stoner-doom amabilmente strimpellato alla vecchia. ''Groovy smokey and trippy'' direbbero coloro che sanno scrivere recensioni. 

Balsamico nelle casse come un vegetale ambulante invocato da qualche oscuro aquitrinio cosmico noto solo a Wes Craven, i texani ci consegnano un succulento vassoio di fritto misto del sud, una versione blues-infusa di chimeriche baracche hoodoo ('''Hurt at Gone''), schitarrate (ma anche scatarrate) downtuned, famelici non-morti (''Lost Highway''), cerberi sanguinolenti nel giardino di casa e mondi ultraterreni (''Sleep of the Black Lotus'') dove il Riff regna onnipotente. In pratica come se la EC Comics rinchiudesse J. Lee Hooker e i Kyuss in uno studio, costringendoli a tirar fuori la colonna sonora dell'ultimo racconto di fantascienza di Lovecraft.

I Wo Fat credono nel Riff. Ma te che leggi, con la tua fumante tisana ricreativa tra le dita, credi almeno un po' nei Wo Fat oppure credi, per l'ennesima volta, solo a Babbo Natale

 

 

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