Dopo il biondo platino di Dave, le bretelle bianche (diobono, BIANCHE!), la fornicante torma di roditori di collodiana memoria e "Summer Shudder", pensavamo che il peggio fosse passato. Errore. Il demone di Miss Murder è più vivo che mai, così come sempre più affilato è il suo stiletto, mai pago di vittime sacrificali da immolare sul suo glitteroso altare pop.

Eppure le cose non iniziano male per la truppa di Ukiah. Anzi. Prima di inoltrarci nel merito, però, una premessa è d'obbligo: la reiterata masturbazione sul perchè gli A.F.I. non sono più "Quelli che... East Bay hardcore" ma hanno deciso di abbracciare nuove esperienze è di una noiosità insopportabile ed è decisamente sterile, quindi qui non verrà affrontata manco di striscio. Le scelte vanno contestate, ma anche accettate. I ragazzi sanno (sapevano?..) il fatto loro, quindi vediamo cosa hanno da proporci.

L'incipit di "Crash Love" è molto promettente; sul piano del songwriting ci presenta un gruppo più maturo, che ha finalmente abbandonato espressioni banalizzanti e topoi inflazionati, evocanti atmosfere gotiche in cui, forse, la band non si è mai veramente riconosciuta: Davey Havok canta con grande sensibilità dell'amore come esperienza totalizzante e dell'esperienza umana, realizzantesi solo mediante scelte irrinunciabili e irripetibili; sussurra commosso istanze metafisiche che mai verranno raccolte ('Why live for pain in the name or love?' è uno dei versi, memorabili davvero, di "Sacrilege"). Arrangiamento e missaggio delineano un suono meno barocco e sontuoso rispetto a "Decemberunderground" e "Sing the Sorrow", più calmo e ovattato, volto a favorire l'introspezione dell'ascoltatore. In quest'ambito, "Torch Song", "Beautiful Thieves" e "End Trasmission" sono piccoli capolavori fatti di sussurri, sospiri appena accennati, delicati arpeggi e tenui riverberi: ne è un esempio il tapping di "Beautiful Thieves", versione decisamente più pacata dell'intro di "The Leaving Song Pt. II".

Improvvisamente, però, il meccanismo, fin qui perfetto, sembra incepparsi: quasi per sopperire ad un'improvvisa mancanza di ispirazione, dal florido passato vengono confusamente rievocati battiti di mani, delicati tintinnii di carillon, call and response alla "Bleed Black" e perfino la stessa "Morningstar": il tutto plasma un mirabile monstrum senza capo nè coda, che urla via etere la sua vacuità.

La seconda parte dell'album è, infatti, pregna di passi falsi: le linee vocali sono banali ed (eufemismo!) irritanti, la voce di Dave (lo screaming ormai è una chimera) non mostra mai la sua versatilità ed estensione, anzi, appare spesso monotona e quasi svogliata; lo stile calmo e pacato dell'album, lontanissimo dal concedere il pur minimo cambio di marcia, si rivela un'arma a doppio taglio, che ben presto affonda l'ascoltatore in un greve torpore in cui Hunter Burgan (praticamente non pervenuto: dove sono finite le poderose linee di basso scolpite in quel superbo bassorilievo che è "Synesthesia"?) e Jade Puget (l'istrionico chitarrista appare, in quest'ultima fatica, dimesso e poco ispirato: atrofizzate le sue incursioni in 'ambito solistico) sono relegati a svolgere un compito di mera sufficienza.

Strano a dirsi, una speranza di resurrezione sembra offrirla il singolone "Medicate". La canzone ha un buon tiro ed è molto meno mainstream di tante altre, così come sono ben calibrati e studiati gli stop 'n' go e la ritmica che la caratterizzano, ma quel bridge che fa il verso a "Miss Murder" (che a sua volta plagia "Fall Children") manda a puttane tutte le buone intenzioni iniziali.

Prima di chiudere, un'ultima questione: perchè la migliore canzone del disco gli A.F.I. la propongano sempre come bonus track o b-side rimane un insoluto mistero. Il poco ossequioso trattamento (in relazione alle sue qualità) è stato riservato stavolta a "Fainting Spells", che risolleva un po' le sorti dell'album rievocando le arie e l'atmosfera di "Sing the Sorrow": qui cambi di ritmo, barrage chitarristici, cori di inusitata potenza ed un Dave finalmente tagliente e abrasivo la fanno da padroni.

Un brutto album, quindi, questo "Crash Love", che scivola nell'anonimato troppo presto, dopo averci offerto una manciata di pezzi davvero notevoli. Pezzi che, comunque, rivelano una vena artistica e creativa del gruppo in costante evoluzione. Sarebbe bene che gli A.F.I. continuassero a proseguire sulla strada della sperimentazione (nuove contaminazioni elettroniche sarebbero ben accette), evitando però le facili incursioni nello sfacciatamente commerciale, spesso mascherate ipocritamente dalle band come "tentativi di innovazione", di cui "Crash Love" e "Decemberunderground" sono tristi esempi.

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