Senza pensarci troppo su, quel giorno, decise di rimanere in ufficio anche per la pausa pranzo.

D’altronde dalla finestra di fronte alla scrivania poteva vedere ogni cosa gli interessasse e, per sua impostazione mentale, quello che non vedeva poteva immaginarlo perfettamente.

Prese il suo panino con insalata, formaggio e bresaola e iniziò a scorrere il capiente hard disk in cerca di un disco da ascoltare mentre sgranocchiava il suo pasto. Gli piaceva godere di quell’atmosfera di solitudine, all’ascolto della sua musica preferita. I suoi gusti, effettivamente un po’ strani, gli avevano sempre generato una forma di orgoglio da una parte e di vergogna dall’altra. Intendiamoci, ascoltare certi dischi di Frank Zappa o dei Magma o di jazz dalle ampie vedute alla Elton Dean, in compagnia di chi non potrebbe apprezzare è faticoso, porta necessariamente a interrompere l’ascolto, specie dopo frasi del tipo: “Ma che cavolo ascolti?” , “Cos’è sta robaccia?”, “Ma non hai un po’ di roba ballabile?”, ecc. ecc.

Così, da solo, poteva tranquillamente viversi un momento di insano autismo musicale. La scelta cadde su "Vampire State Buildings" inciso nel 1971 dei tedeschi Alcatraz, la cui durata corrispondeva grossomodo alla pausa pranzo e sarebbe finito in anticipo all’entrata dei colleghi d’ufficio, usciti per pranzo.

Già dal primo brano “Simple Headphone Mind” il suo sguardo si fissò oltre la finestra: un’aria primaverile, secca e più tesa del normale, faceva svolazzare i pollini dei tigli, tanto da sembrare fiocchi di neve smossi dalla mano del caos. Il disco partì, con un avvio classicamente Canterbury dal sapore Soft Machine e Caravan primigeni e uno sviluppo dai tratti davisiani e zappiani: “Gran pezzo!”, pensò, bevendo a canna dalla bottiglia d’acqua che teneva sempre accanto. Le note del sax, si miscelavano alla chitarra distorta e psichedelica ed erano, saltuariamente, sormontate da strappi di piano elettrico. Su tutto, la guida di una batteria fantasiosa e dinamica che segnava un tempo certamente più mentale che fisico e poi quel flauto, così carico di fantasia e delicatezza. Quelli erano brani dove la rotondità dell’ascolto era in netta contrapposizione con la complessità della scrittura, sintomo chiaro di altissima professionalità.

Facendo attenzione a non far cadere briciole di pane sulla tastiera e quasi ipnotizzato dalla ragazza dai capelli rossi, che continuava a fare avanti e indietro sul balcone del palazzo di fronte durante una concitata telefonata, sentì partire il secondo brano “Your Chance Of A Lifetime”. Più tipicamente kraut, con ricordi di blues amaro e forse un po’ hendrixiano, di quelle misture trasversali che minacciano duramente l’anima, ridondando su percussioni da bolero e apparentemente nate dalle fiamme, come le note di piano elettrico e di fuzz guitar che dominano la seconda parte del brano. Nel marasma jazz rock gli apparve quasi strano l’accento della breve “Where The Wild Things Are”, un hard blues dai risvolti vagamente southern rock.

Rovistando con la lingua tra i molari, nel tentativo di far uscire un pezzo di panino, forse rintanatosi per non farsi deglutire, salutò con piacere l’arrivo della title track, per tredici minuti di scorribande quasi furiose di jazz rock bitchesbrewiano, zappismi, blues e kraut in un tutt’uno trascinante e imprevedibile.

Il brano finale e la bonus track del CD, non fecero che confermare l’ottima impressione accresciutasi con l’ascolto.

Il codazzo dei colleghi stava rientrando, proprio mentre spegneva il lettore musicale. Rassettò la scrivania dalle poche briciole cadute e, osservando gli sguardi straniti dei colleghi, alzò le spalle, un po’ orgoglioso e un vergognato, ma certo di essersi ascoltato un bel disco.

sioulette

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