Non so, e sinceramente non mi interessa più di tanto, quale sia il motivo che spinge quotidianamente centinaia di milioni di chiappe a muoversi in un gesto più o meno atletico e sciolto come quello naturale della corsa. La dieta e la rincorsa della linea per l'estate? Non per me; le palestre mi fanno ribrezzo, la rincorsa all'addominale di Brad Pitt e i tappeti rollanti che ci fanno stare fermi in una stanza piena di sguardi d'invidia reciproca sono un'impersonificazione della tristezza. Io ho paura del divano, della scatola che ha dato il nome alla stanza posta vicino alla cucina ed al salotto. Io ho bisogno quotidianamente di sensazioni che mi facciano dire: sto vivendo. Ciò che mi spinge da aprile a ottobre, una volta terminata la giornata lavorativa, a snodare il nodo della cravatta ed incalzare le scarpette da running montano è la voglia di fare fatica, ma non nel senso masochistico del termine. Si chiama tecnicamente "spezzare il fiato". Quando dopo una bella manciata di minuti ti sembra di non averne più, quando il cuore martella, quando le gocce di sudore ti coprono gli occhi, quando sai di sale: ecco lì è il momento di accelerare. Improvvisamente, se si ha un buon allenamento, il corpo si abitua allo sforzo e trovi un'oasi di aria, una sacca di energia e ti senti libero e leggero. Una sensazione di libertà alla stato più puro della quale godo quasi quotidianamente tra sassi, radici, alberi e decine di km di spazio da una croce posta a 1700 metri che domina la vallata. Sono madido di sudore, sono in estasi emozionato e rilassato: sono fottutamente vivo!!! Guardo il tramonto e tiro fuori una birra dallo zaino che sorseggio lentamente, mentre il cuore torna alla normalità.

Ma non sempre si può correre all'aria aperta ed ecco spiegati i libri che costellano i miei scaffali. Quando una persona non è abituata a leggere continua a guardare le pagine. "Oggi ho letto 50 pagine". "A che punto sei arrivato? Mah, sono a pagine 120". "Porca troia secondo te ho chiesto quanti pidocchiosi grammi di pasta hai mangiato o che cazzo di sugo hai usato?" E' bello leggere quando entri nella storia, fregandotene delle pagine e riesce a immedesimarti nei personaggi e nelle situazioni. Leggi quando prendi a calci il libro che ti ha deluso e che non ti trasmette nulla e non hai paura a lasciarlo lì giustamente incompleto alla mercé della polvere perenne. Qualche volta è bello fare il tifo per il cattivo, magari pdescritto in maniera più accattivante del protagonista, e poi la sensazione di sentire il corpo addormentarsi lentamente con un buon libro ha davvero del sublime. Il cervello si spegne con il sorriso...

La musica mi è stata vicino in un momento particolarmente buio della mia vita. Quello che covava dentro di me volevo farlo uscire sotto forma di musica. Ore passate ad ascoltare, per cercare qualcosa che potesse entrare in simbiosi con il mio stato d'animo. I dischi si dividono in due categorie: quelli immediati e quelli enigmatici. Tra questi due estremi ci sono un numero fottuto e quasi infinito di vie di mezzo. Quelli enigmatici non devono essere confusi con i mattoni: pezzi di granito che per quanti snelliti da centinaia di ascolti sempre a fondo andranno. La prima sensazione, come quando hai annerito quasi tutte le caselle di un cruciverba che ti sembrava di poter fare, è di lasciare perdere. Non ti convince, l'uva è acerba ed il rebus bianco e tutto da scoprire nella pagina successiva è mooolto più maturo. Ma a distanza di tempo carpisci qualcosa che di primo acchito non avevi colto e ad ogni ascolto il disco lievita come il pane fatto in casa. Un disco così stimolante e affascinante, quanto una donna attraente e misteriosa, non l'ho ancora trovato (è per questo che leggo, corro e ascolto???) ed è questo forse che mi spinge ad arricchire con una certa costanza la mia collezione.

Ciò non toglie che "Holy Land" degli Angra sia uno di quegli album capace di regalarmi sensazioni forti e piene a distanza di 15 anni. E' un immenso lavoro che riesce ad intrecciare melodie mai banali, ma eleganti, con inserti etnici, riff serrati e pause riflessive e melanconiche. Le chitarre si rincorrono in assoli veloci, poi si fermano in arpeggi sofisticati e le orchestrazioni, le backing vocals sono in perenne agguato. Irrompono quando meno te lo aspetti. Ogni traccia ha dei passaggi che si ricordano: la sezione ritmica ipnotica di "Nothing To Say", il disperato e leggero penare di Matos in "Silence And Distance" e "Holy Land". L'apice di un disco che non ho timore a definire everestiano si espleta in "Carolina IV" che unisce teatralità ad attesa, potenza con ripartenze e brusche frenate etniche. E quel cazzo di piano mi entra dentro e non esce più. E se quel violino ne sottolinea la bellezza, se succede tutto questo, anche se è la centesima volta che la ascolto i peli del braccio si alzano: mi sento in grado di fare di tutto, sto correndo a perdifiato e dieci secondi fa ero fermo. Questa è musica!!! Speranza crescente nel pizzicare vocale di Matos in "Make Believe"; il basso entra con sempre maggiore decisione assieme alle orchestrazioni e dà il là ad un'iniezione di carica positiva. Tragedia classica in "Z.I.T.O.": apparente cavalcata power molto più complessa e ricca di sfumature nel prosieguo dei minuti con un lavoro chitarristico e sinfonico mostruoso. Il Brasile e l'oceano nella dolcissima e melodica "Deep Blue" con un ritornello che incornicia Matos lassù tra i miei cantanti preferiti di sempre.

ilfreddo

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