Un fantasma si aggira per l’Europa: evocato dagli starnazzi del New Musical Express, da orde di incalliti bloggers in cerca della next big thing e dai Virgin Stores di mezzo continente.

Il brit-pop è tornato tra noi in pompa magna, e persino nel ruolo di chi conduce le danze. Tutto grazie agli Arctic Monkeys, il cui irresistibile successo è sotto gli occhi di tutti. Quello suonato dai quattro guaglioni di Sheffield è a tutti gli effetti un brit-pop pesante, riverniciato in fretta da “modernismo” rock alla Strokes, dal supponente piglio british dei Libertines e da effetti disco-punk comprati al mercatino dei Franz Ferdinand. Il che è abbastanza desolante, visto che stiamo parlando a loro volta di tre riciclatori sfiatati, con buona pace di chi farnetica di new rock revolution. Figuriamoci quanto possa suonare eccitante una formula che li scimmiotta.

Intendiamoci: stiamo parlando del debutto di un gruppo di quasi adolescenti, quindi si dovrebbe essere piuttosto teneri in fase di recensione, e mettere in evidenza i pregi – ad esempio i testi, spaccati di vita da pub neanche troppo banali in fondo - piuttosto che gli inevitabili difetti. Ma la grandeur che aleggia attorno a questo album non può esimerci dal dare a Cesare quel che è di Cesare. E a dire che tre quarti di questo disco fanno cagare. I pezzi che dovrebbero fare sfracelli nelle comunità dancey alternative come “I bet you look good on the dancefloor” o“ You probably couldn’ t see for the lights but you were looking straight at mesono eccitanti quanto Romina Power impegnata nel ballo del qua qua.

Quelli idonei a sprigionare l’energia “rock and roll” tanto cara a riviste-scottex tipo “Rumore” si risolvono in una banalità di stereotipi sull’asse Jam-Oasis-Maximo park. Episodi come “Dancing shoes” o “ Fake tales of San Francisco” sono così sconclusionati da far rimpiangere le Elastica, ed è davvero tutto dire. Ballate midtempo tipo come “Riot van” e la conclusiva “A certain romance” sono infine propizie a tagliarsi le vene dalla disperazione. L’unico pezzo riuscito del disco è in conclusione "When the sun goes down”, benché non sia molto dissimile da “Jacqueline” dello sciagurato austro-ungarico. La parte melodica è interessante, il cantato pure, mentre nel refrain il gruppo evita di fare soltanto casino – come in quasi tutto il disco – suonando inusitatamente ficcante e mettendo in dispensa almeno una canzone degna dell’ hype generato attorno alla band.

Tuttavia, mi sembra davvero poco per promuovere questo album. Complimenti vivissimi alla divisione marketing della “Cool Britannia” . Ma il rock and roll è davvero un’ altra cosa.

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