Scusate se batto il chiodo, ma (finché posso) voglio permettermi il lusso di poter esprimere un modesto parere su ciò che ritengo valido o meno "smascherando" di volta in volta i lavori che ritengo in linea di massima "artisticamente scarsi" o scopiazzati o banali o "mestierate", insomma, ci siamo spiegati. Ed è il turno della tanto osannata Björk, ormai "vate" da oltre 10 anni della sperimentazione tout-court e vera e propria "sacerdotessa" di noi umili ascoltatori dalle orecchie mai paghe di novità. Ebbene, la nostra illustrissima, celebratissima, adoratissima (non sto scherzando, io sono stato tra i suoi ferventi sostenitori) che ti tira fuori dal cilindro? Una colonna sonora per un film stralunato e pretenzioso (a detta dei molti critici di Cannes, non mia che non l'ho visto) del marito regista. Analizzando pezzo per pezzo sediamoci in religioso silenzio e godiamoci questa "fatica".

Si parte con campanelli, arpe e una voce maschile spiazzante e disarmata ("Gratitude") per passare a "Pearl" vero e proprio tributo a voci, sospiri, gemiti, sussurri e grida, orgasmi, farcite da fisarmoniche e mellotron. Ma la musica? Okey, si va avanti. Una grattatina alle palle, per scaramanzia, e via. Ci vuole il terzo brano "Ambergris March" per sentire il primo tamburo, tra spinette, percussioni, campanelli. . . di Bjork ancora nulla. Con "Bath" la Divina ci elargisce un paio di frasi sospirate, eteree e sospese che si sciolgono e ci proiettano in paesaggi fumosi e inconsistenti sospesi tra il nulla e un non so. Il brano "Vessel Shimenawa" parte come una simil marcietta di tromboni per avvicinarsi in territori simil-Morriconiani ripercorrendo itinerari oserei dire già battuti dal soundtracking tradizionale (ancora privi di voce). "Storm" a cui si riferice il titolo è un stormo di voci, un gioco di riverberi vocali e sperimentazioni tenuti assieme dal sempre fragile cantato della nostra che si fa sempre emozionale e cristallino, un canto sparso tra echi, rumori in loop, echi lontani e suoni distorti di acqua, vento e chi più ne ha più ne metta. "Holographic Entrypoint" ci riserva un brano quasi teatrale NO giapponese, riprendendone il suono e la proposizione di stampo classico (quasi un pezzo che vedrei bene in un film da Tarantino). Devo dire che mi stanno fumando leggermente i coglioni e contemporaneamente le palpebre mi si chiudono con estrema facilità (dura quasi 10 minuti e vi sfido ad arrivare in fondo lucidi). Si procede allegri e pimpanti con i. . . campanellini di "Cetacea" con il canto allegro e solare (via, stavo scherzando ma rispetto a prima poco ci manca. . . ) della Nostra Beata Musa, quasi un "classico björkiano" dove la voce si esprime ai massimi livelli. E chiudiamo in "bellezza" con "Antartic Return", una lentissima suite di 4 minuti e passa che stenderebbe perfino Enrico Ghezzi, senza voce, senza ritmo, senza fiato, senza tutto e basta.

Che dire? I casi sono due: A) la nostra sta grattando il barile, citando e rifacendo musica ampiamente setacciata con Vespertine e Medulla B) La nostra ha fatto una simil-marchetta per il cinema o per amore, che in questo caso coincidono, giocando col minimal, il silenzio, la sperimentazione, il "pochino", aggiungo io, dandoci un disco profondamente moscio, rarefatto e oserei dire vacuo. Troppo vacuo. Sarebbe stata una genialata PRIMA di Vespertine o Medulla, serebbero sonorità coraggiose suonate "allora" ma adesso no. Adesso ha già dato, sono passati oltre cinqueanni, fija mia, ripijate, su, dai che adesso ti aspettiamo al prossimo giro e saremo ancora li (forse) ad aspettarti. . . Così raccolgo i miei coglioni, me li metto a giro collo a mo' di sciarpetta e me ne esco di fuori col mio CD in mano per cercare di piazzarlo a qualche bancarella, che appena gli dici "Björk" te lo prendono a occhi chiusi. Come avevo fatto io, porc. . .

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