E' l'ultimo dell'anno, e mentre tutti organizzano feste e cenoni, io, che teoricamente dovrei organizzarne uno a casa mia, invece scrivo questa recensione, di "We Are the Romans", dei Botch.

Sono gli USA la nuova Roma indicata dai Botch, ed è una Roma che cade, e con disastrosa inevitabilità cede al peso degli anni, delle piccole rivoluzioni quotidiane e della perenne innovazione di una civiltà caotica e frattale come quella umana.

E quindi è mastodontico, roboante eppure anche lui in un certo senso caotico e frattale, lucido e schematico, il sound dei Botch: un sound che si inquadra in un metalcore evoluto, ormai libero dei pregiudizi che lo hanno sempre impantanato, già pronto ad evolversi in quello che oggi viene spesso chiamato mathcore. Riff contorti (e assoli impossibili si direbbero suonati da 4 mani), batteria che scandisce controtempi su poliritmi, influssi jazzy - ma soprattutto i King Crimson che paiono vegliare eternamente sullo sfondo di questo disco - eppure lo schema delle cose fluisce così bene, proprio come se fosse un brano di puro hardcore, semplice e lineare, energico. Pestano duro, ma sanno quand'è il momento di stare un po' calmi e far riprendere il fiato, eppure è solo una presa per il culo: uno schema ciclico, frattale (mi sono innamorato di questo aggettivo) intrappola l'ascoltatore in momenti catartici, furiosi, pura annichilazione della ragione, quadro di profonda anarchia che ritrae il crollo immane dell'Impero.

E, nonostante tutto, lo scheletro, la colonna portante di quest'opera sonora è permeata di lucidità. Di una fondata, magari schizofrenica, malata, però pur sempre di lucidità si parla, di razionalità, di coerenza compositiva: già al primo ascolto, avevo quell'indefinibile sensazione da "questi hanno messo le note giuste al posto giusto". Esaltante, vero?

Assalto dopo assalto, catarsi dopo catarsi, rivoluzione dopo rivoluzione, una marcia tonante introduce l'ultimo pezzo, che forse lo si potrebbe criticare per eccesso di epicità (il coro a cappella che scandisce il titolo dell'album, ad esempio). Tuttavia l'immagine apocalittica, ridondante e disastrosa, è ritratta con straordinaria efficacia.

Chiude il disco una hidden track, sette minuti di elettronica. Sì, proprio di elettronica. Condita da distorsioni quanto vi pare, ma è pur sempre elettronica.. non esattamente il tipo di cosa che ci aspettiamo in conclusione di un album così. Eppure l'esperimento - e la sorpresa - vengono fuori bene. Funziona, si incastra nel contesto affollato del brano.

Ok, il 2006 è finito (auguri). Ascoltatevi questo discone. Ora tutti giù ad ubriacarsi.

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