Il Boss ormai da un pezzo sta raschiando il fondo del barile. La sua fortuna è che il fondo non arriva mai, visto che ogni volta desideri riempire i mercati con una qualche uscita discografica senza aver pronto un nuovo album di inediti, piazza una raccolta di brani esclusi da precedenti lavori, oppure un album dal vivo. In questo 2010 si è addirittura giocato entrambe le carte con il live "London Calling" e questo "The Promise", che raccoglie tutto ciò che non era riuscito ad entrare nel meraviglioso "Darkness On The Edge Of Town" nel lontano 1978. Quello fu un album più intimista e disilluso dei precedenti, soprattutto se paragonato con il capolavoro "Born To Run" del 1975 in cui la facevano da padrone le speranze e i sogni di giovinezza che tre anni dopo si ritrovarono annegati nei rimpianti ruvidi dell'età adulta, con la quale ci si trova a dover fare i conti prima o poi.

L'aspetto sicuramente più affascinante dell'artista che fu Bruce Springsteen è quello di non aver composto dischi scegliendo fra la vastissima gamma di brani da lui scritti quelli più radiofonici, sfornando così prodotti come accozzaglia di pezzi ammiccanti da dare in pasto alle classifiche, bensì quelli che davano al disco un senso compiuto, quelli che si accostavano di più a ciò che voleva essere lo spirito dell'album. "Born In The U.S.A.", poi, riuscì ad essere entrambe le cose. Ecco spiegata l'esclusione dal disco del '78 di alcuni brani eccellenti che qui vengono ripescati, come "Because The Night" o "Fire" successivamente regalti ad altri ma rimasti sempre nel cuore del Boss: non erano sufficientemente rivestiti di quel disincanto da sogno svanito, di terra promessa che s'è scoperta non essere la sua America, di quel senso di vuoto che solo una speranza riposta in uno scatolone in cantina può trasmettere. Come lo stesso Springsteen ha affermato, le canzoni contenute in questo "The Promise" avrebbero dovuto essere pubblicate fra "Born To Run" e "Darkness On The Edge Of Town", e lì vanno infatti collocate, costituiscono un ponte fra l'illusione e la disillusione, sono sicuramente meno sognanti ma non si sono ancora arrese. La title track, già conosciuta per essere apparsa sulla raccolta "18 Tracks" nel '99 in una versione differente (e migliore), incarna tutto il senso del disco e getta per intero quel ponte: "I followed that dream just like those guys do up on the screen, and I drive a Challenger down Route 9 through the dead ends and all the bad scenes, and when the promise was broken I cashed in a few of my dreams" per poi terminare rievocando quella Thunder Road che solo fino a pochi anni prima significava evasione, speranza, una scossa alla sedentarietà per non morire in un letto di rimpianti; ora, mestamente, termina con una vena malinconica: "Thunder Road, we were gonna take it all and throw it all away". E poi? E poi c'è l'oscurità alla periferie della città.


Questo disco si fa apprezzare da chi ha nostalgia dello Springsteen narratore, quello autentico, vero, lo zio d'America, e non della caricatura grottesca di se stesso che propone da qualche tempo a questa parte. Il barile del Boss è incredibilmente ben fornito e quello che ne tira fuori non è certo all'altezza dei dischi usciti ai tempi d'oro, ma è molto superiore a quelli pubblicati nei recenti, tempi bui.

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