Il mondo e la società distopica prevista da Fritz Lang si è realizzata. Nella meccanizzazione dell'uomo il controllo orwelliano ha trovato il suo pieno compimento. Le macerie di una realtà oramai disintegrata macchiano anche gli scorci più speranzosi. L'uomo è perduto, il tempo scivola via e l'aridità fra gli ingranaggi della metropoli chiude ogni spiraglio di un futuro migliore. Lo sguardo punta all'orizzonte, fermandosi però, come direbbe Camus ne "Lo Straniero", tra il mare, la sabbia, il sole, il doppio silenzio del flauto e dall'acqua, guardandosi senza abbassare gli occhi, consci (qui prendo licenza poetica dal buon Albert) della propria situazione umana inerme. Il tramonto arriva implacabile ed è ardentemente desiderato. Le ombre divorano gli spazi che cupi lo sono già alla luce del giorno. Delle folate di vento giocano a rincorrersi fra i cunicoli e viottoli degradati di una città industriale. Il clima si fa sempre più tagliente e il freddo lambisce le guance, rinsecchendo un animo già lacerato. Nella notte però compare un elemento brillante che affascina e che fa dimenticare la Metropolis che angosciante pulsa incessante, facendo sentire il suo opprimente fiato sul collo. Gli occhi rimangono incantati scrutando il cielo stellato. Le stelle, così luminose e radianti, così lontane, così streganti da rapire completamente ogni goccia di senno e far sì che l'uomo possa riprendere a immaginare il suo antico essere esploratore. C'è una sola possibilità per fuggire dall'universo ripetitivo di Metropolis e la soluzione la si trova nell'ignoto che veglia sopra di noi. Nella sconfinatezza dello spazio e degli astri. Il presente è morente, il futuro è da ricercarsi laddove non vi è nessuna certezza. Viaggiatori che non conoscono rassicurazioni e limiti, ma consci di dover stagliarsi il più distante possibile dagli automi robotizzati che sulla Terra hanno succhiato ogni linfa vitale. Questo è "Mariner". Questo è il concept con cui i Cult of Luna tornano sulle scene, ma sul palcoscenico non ritrova spazio solo la band svedese, vi è pure una cantante che risponde al nome di Julie Christmas, la quale sosterrà e guiderà la navicella pronta a perdersi e vagare nelle galassie più remote.
Il decollo è prossimo all'avvenire e il modo migliore per affrontare "Mariner" è quello di lasciarsi perdere nelle architetture imponenti che avvolgono i 55 minuti di odissea spaziale, un termine non usato a caso, in quanto Johannes Persson ha ribadito più volte che nel ricercare certe soluzioni artistiche qui presenti sia stato ispirato dal buon Stanley Kubrick. Le sensazioni che si hanno, infatti, mostrano un sapore cinematografico. Fin da "A Greater Call" si ha l'impressione di un progressivo allontanarsi dalle sonorità di "Vertikal", le quali nella loro claustrofobia spigolosa lentamente scompaiono, lasciando così lo spazio a una fluidità esecutiva che rimanda a un fluttuare con il proprio corpo dinanzi all'aprirsi di infiniti paesaggi lunari e pianeti sconosciuti. Un viaggio caleidoscopico dove il mutare forma è amplificato dalla schizofrenica personalità della Christmas, la quale non è presente solo come guest d'eccezione, ma dirige magistralmente gli umori e i colori che "Mariner" vuole lasciare emergere. Il navigare nell'abisso di costellazioni può rivelare scenari imprevisti, non solo la meraviglia e il sollievo di allontanarsi da Metropolis. In questo la Christmas, avendo piena libertà a livello di testi e scelte vocali, raccoglie la sfida e sfodera il suo range vocale in perfetta sintonia con le suite sonore che i Cult of Luna tessono minuziosamente. C'è il soffuso incidere sognante, c'è il sussurrare misterioso, c'è un malefico urlato, c'è l'isterismo incontrollabile, c'è uno scream liberatorio. C'è, insomma, poliedricità che, talvolta, fa da contraltare al growl burrascoso di Johannes.
Iridiscente è l'epopea che i Cult of Luna dipingono a livello sonoro. L'anima degli svedesi si scompone dinanzi all'immensità sconfinata. È un turbine dove s'attraversano realtà alternative, ognuna con la propria peculiarità. L'esplodere di asteroidi mostra il post-metal più granitico, ruvido eppure così atmosferico. Già, atmosfera. Il principio cardine su cui si ancora il sound dei ragazzi di Umea. "Mariner" in questo li posiziona all'interno di un'esperienza contorta, che mostra la loro capacità di sviluppare scenari completamente opposti l'uno all'altro nel giro di una manciata di minuti. La sceneggiatura e le scenografie che vengono costruite man mano vengono a contatto e si scontrano in un flusso in cui tutto ha il giusto equilibrio. Una stratificazione che prende vita, satellite dopo satellite, per illustrare la complessità di un'esplorazione così disperata, ma al tempo stesso incantevole. I Cult of Luna hanno un'eleganza propria che in "Mariner" trova ulteriore potenziamento nelle capacità canore di Julie Christmas. Nel prisma che questo concept si rivela essere, si viene immersi e sepolti dalla coltre di una nebulosa inquietante, piuttosto che da una tempesta spaziale che fa precipitare l'astronave in lande sconosciute. Il cosmo etereo che lentamente si schiude e abbraccia l'uomo minuscolo può divenire un angosciante emblema della solitudine, o l'infinito silenzio fa sì che si rallenti il respiro e si rimanga immobili, esterefatti dinanzi all'incomprensibile. Queste sono solo alcune delle visioni che trovano compimento fra le chitarre che ripescano lo spirito più post-rock dei Cult of Luna o dall'ambient che, sottotraccia, permette di mandare in una rapida criogenia i pachidermici riff sludge e doom. Un fitto sottobosco di ramificazioni si muovono all'unisono, alla ricerca costante di caratterizzare il monolite "Mariner" e ci riescono alla grande, fra synth e tastiere che connotano i Cult of Luna in mosaici post-moderni.
Il gran finale pare giocarsi sugli specchi contrapposti di "Approaching Transition" e "Cygnus", la prima così malinconicamente apocalittica, nel suo camminare a passi stenti e delicati, grazie a un Johannes che, con l'aiuto di una voce effettata, bisbiglia una calma rarefatta, quasi come se ci si stesse preparando a un nuovo compimento, anzi, a un abbandono totale di tutto ciò che è stato ed è, proiettandosi, fremendo, in una nuova dimensione. L'escalation finale di "Mariner" infatti si materializza in un tripudio di colori accecanti, con una navicella che sfida la velocità della luce, entrando in un buco nero che possa catapultare nell'ignoto. Un mix fra Kubrick e Nolan, insomma. Un'esplosione che fa scomparire i protagonisti di "Mariner" e che, al fulmicotone, placa le onde tumultuose delle composizioni dei Cult of Luna, restituendo solo un fascio di luce bianca abbagliante. Il nulla. L'eternità. Tutto si spegne e l'uomo che tanto indagava su se stesso, sulla sua vita e sull'infinito che lo circonda, si ritrova inghiottito senza sapere cosa lo aspetti. Ma, a questo, i Cult of Luna ci penseranno più avanti, se lo vorranno, a noi rimane "Mariner", l'ennesima testimonianza di altri pionieri, non dello spazio, ma del post-metal.
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