Correva l'anno di grazia 2003 e Dave Gahan, emerito patron di casa Depeche Mode, prendeva l'ardua tuttavia ovvia decisione di buttarsi a capofitto nella carriera solista. Non gli si poteva che dare ragione e pieno sostegno: vent'anni di carriera con un gruppone che aveva cambiato le carte in tavola sul fronte synth-elettronico, una decorosa manciata di album all'attivo (l'ultimo, Exciter, uscito appena due anni prima), tour maestosi che si erano estesi dal Pasadena al Filaforum, una carriera che nonostante le paralisi e i millantati scioglimenti (proprio a causa del frontman ivi descritto ha sempre recuperato la vitalità del debutto. Ed è così che il buon Gahan, superato il travaglio post-overdose e gli spettri oscuri di Songs Of Faith And Devotion e Ultra, si affrancava dalla classica produzione del suo gruppo tentando sia di mostrare una valida capacità compositiva e di songwriter (al pari del collega Gore) come pure di travalicare i confini del tradizionale sounds depechemodiano.

La spasmodica ricerca di un alternativa all'esclusivo artificio di synth si è confermata come obiettivo primario di Gahan che per il suo irripetibile debutto ha optato per un orientamento country-rock-instrumental riuscito solo in parte: la quasi "abnegazione" delle origini ha certamente mostrato un Dave per nulla scontato e ripetitivo, ma al contempo ha provocato un drastico declino di quel vigore e quella "ruvidità" incarnate in un autentico "animale da palco" che urla, scalpita e smuove le masse.

Una diffusa fiacchezza (anche vocale) che contraddistingue buona parte del disco: la pacatissima miscela country-rock per Hold On, lo spettrale esperimento gothic ambient di A Little Piece, la soffice e vellutata ninnananna strumentale di Stay assieme al gioco di synth evolutosi improvvisamente in un scazzato breakdown simil-rockeggiante in Goodbye.

Parallelamente a siffatto "relax" sonoro sussistono poche ma significative reminiscenze dell'antico ardore depechemodiano: il primo estratto Dirty Sticky Floors sembra emulare senza inflazionare troppo gli straordinari fasti elettro-rock di It's No Good (1997, ndr.) come pure la sporcizia intrinseca di Bottle Living fa tirare un sospiro di sollievo a coloro che rabbrividivano alla notizia di un Gahan "purificato". Gradevoli, infine, la frivola tenue nota danzereccia di I Need You e la prosecuzione elettronica-rockeggiante in Hidden Houses.

Un lavoro altalenante, acerbo e contemporaneamente saporito, in bilico fra tradizione e continuità, nostalgia e rinnovamento al futuro. E nonostante la maturazione di Dave sembra aver provato un degno prosieguo nel più rigoroso e valido Hourglass, mai gli si potrà rimuovere l'atavica etichetta di mentore "maledetto" dei Depeche Mode, dai quali egli stesso dovrà estrapolare preziosa linfa e rinnovarla senza sosta in un curriculum solista sufficientemente adeguato al suo pesante status.

Dave Gahan, Paper Monsters

Dirty Sticky Floors - Hold On - A Little Piece - Bottle Living - Black And Blue Again - Stay - I Need You - Bitter Apple - Hidden Houses - Goodbye.

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