Anno Domini 2018, ecco ad assoluta sorpresa un nuovo disco dei Dead Can Dance, gli inventori della gothic-darkwave spiritual-misteriosofica, fra gli artisti più sconcertanti e innovativi degli anni 80 e 90. Almeno fino a quando non hanno un po' perso la vena, entrambi ma soprattutto lei, l'inarrivabile Lisa Gerrard, autrice successivamente di opere minori. Ma dalle interviste rilasciate si comprende che per questo progetto sia stato lui, Brendan Perry, ad essere rimasto folgorato dalle letture sulla mitologia dell'antica Grecia. Specie i miti dionisiaci, da qui il titolo del disco, devono aver risvegliato in lui un arcano ardore compositivo invero ultimamente un po' appannato. Sia chiaro: Ark (a suo nome) e Anastasis non erano brutti dischi, anzi, ma avevano quel non so che di... scontato, di già sentito, di autocitazione che alla fine rendeva queste opere, specie l'ultima, dei piccoli compendi della loro arte, pardossali best of di brani inediti eppure già sentiti. Brendan, preso dal sacro furore, pare abbia chiamato Lisa pregandola di partecipare al nuovo disco, cosa che lei deve aver fatto sì volentieri ma, come consapevole di un suo (inedito) ruolo secondario, rimane sempre un po' indietro, un po' in sordina, corista dietro le quinte in un progetto di cui era protagonosta quasi assoluta.


Ecco un dettaglio non indifferente che rende strano questo Dionysus, diverso e originale sin dalla sua struttura: non un lp di canzoni ma due lunghe suite senza interruzione, a simboleggiare il primo e il secondo lato di un vinile. Il disco si apre con "Sea Borne", dalle percussioni che un po' ricordano Spiritchaser - l'opera infatti rievoca le atmosfere medioriental-indo-hahitiane dei due ultimi album "storici" - per poi cavalcare su una fanfara orientale malinconica e solenne, presto contrappuntata dai cori femminili di Lisa. L'atmosfera magica e ipnotica è davvero in grado di richiamare il mesmerismo dei loro tempi migliori. Così il secondo "Liberator of Minds", più solido e stentoreo ma non meno mediorientale, o il terzo "Dance of the Bacchantes", decisamente più sinistro e inquietante come la danza terribile che vuole evocare, intriso però di spezie orientali e gridi berberi, sono brani che aprono nuovi spazi nella mente, fatti di viaggi esotici nel mondo, certo, ma anche nell'anima. Si chiude così la prima suite, o primo atto, come lo chiamano loro.


Il secondo atto, leggermente più lungo e composto di 4 brani, è quello che presenta i componimenti più simili a canzoni. Dico simili perché non solo le strutture sono piuttosto irregolari, ma anche il canto è intraducibile essendo composto in glossolalia, la lingua inesistente (ovvero inventata sul momento) di cui Lisa era maestra. La suite parte in modo meditabondo con le suggestive cornamuse di "The Mountain", prima che le percussioni, stavolta gelide come il nord più impervio, prendano il sopravvento. Il brano è la prima "canzone" in cui ci imbattiamo, cantata da Brendan con un accompagnamento semplice tipo mandolino e con Lisa semplice corista. Segue gregge di pecore a instillare un paesaggio pastorale della mente, e finalmente un vocalizzo protagonista di Lisa - caso unico nel disco - a dipingere "The Invocation", brano dotato di rintocchi di un oriente raramente tanto interiore. Paesaggi persiani e arabi si intecciano sfumando nella seguente "The Forest" e i suoi cinguettii sintetici. La voce che fa capolino è quella di Brendan ma ormai loro non si servono più della lingua inglese, anzi evocano qui una sorta di patois haitiano che già avevano sfoderato su Spiritchaser. Brano relativamente allegro, che sfuma in "Psychopomp", letteralmente "trasportatore d'anime", titolo riservato anticamente a Ermes/Mercurio, a chiusura del disco. Rumori notturni, cinguettii lontani e leggermente inquietanti vengono poi scanditi da una precisa percussione, a far da supporto alla voce evocativa di Brendan puntualmente contrappuntato da Lisa in una nenia senza luogo né tempo. E il tempo stesso ferma fermarsi nella continuità armonica monotonica del brano.


Non più innovativi e sorprendenti come negli anni d'oro, almeno con quest'opera i Dead Can Dance dimostrano di essere ancora in grado di esprimere sprazzi creativi, superando un po' quel monumento a se stessi che dalla loro reunion del 2005 sembravano essere diventati. Certo, la loro ricerca non si è evoluta poi molto da Into the Labyrinth e Spiritchaser, ma qui viene contestualizzata in un flusso di coscienza dell'anima alla deriva che, invero, le dona assai. Da ascoltare in volo o ad occhi chiusi.

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