La questione qui non è se avete ‘Made In Japan’, ma: quale versione avete? E questo non è un disco da recensire, ma vale la pena di aprire un piccolo tavolo di riflessioni tecniche, riservate probabilmente ai fans più agguerriti ma utili a tutti gli amanti del rock (in generale, e delle performance in concerto in particolare) per capire come si confeziona il più grande live della storia del rock. Cosa c’è in questo disco di così universale ed efficace, e cosa avevano i Deep Purple in quei tre giorni che non hanno avuto prima né dopo?
Né prima, né dopo, sissignori. Dal momento che sembra non esistere una ripresa video integrale di quei tre concerti agostani, e conoscendo i nipponici è abbastanza strano, l’unica performance di riferimento è ‘Denmark 1972’, acquistabile a modico prezzo in DVD (e la raccomando perché contiene anche l’unico estratto disponibile del tour americano del ’73, di cui parliamo subito perché attiene al nostro discorso). Bella prova in Danimarca, una delle migliori della band (insieme a quelle del 1970), ma non è assolutamente la stessa cosa. A febbraio i Deep Purple non suonavano come sei mesi dopo nel paese del Sol Levante. Nove mesi dopo, negli States, la prova palco è francamente deludente, confusa e riduttiva nel tentativo di variare le versioni e l’approccio ai brani storici, sempre un bel sentire ma se fosse stato quello lo standard della Mark II saremmo qui a osannare ’Made In Europe’, non Tokyo e Osaka.
Il suono dei Deep Purple si è costantemente evoluto attraverso gli albums in studio, con l’unica eccezione di ‘Deep Purple’ (un leggero arretramento rispetto a ‘Book Of Taliesyn’). Racconta Jon Lord (R.I.P.) che la scoperta del suono definitivo di tastiera, che lui chiamava The ‘Beast’, lo aveva lasciato sconcertato e che ci vollero mesi e mesi per padroneggiarlo, finchè trovò il compromesso. Non lo spiega chiaramente, ma si capisce che aveva rinunziato ai Leslie (con qualche rimpianto) e passava tutto direttamente sui Marshall, più controllabili dal punto di vista del volume. Un bel pedale, e probabilmente lo stesso compressore di Blackmore, gli consentivano di ‘aprire’ il sound alla distorsione controllata (su ‘Fireball’ e ‘Machine Head’ dedicata prevalentemente ai riff) e di mantenere quando voleva il bel suono Hammond di ‘Concerto for Group and Orchestra’, senza accavallamento alcuno delle note. Dal momento che Ritchie è noto per non tenere molto i riff, almeno non in maniera costante (tranne che su ‘Smoke On The Water’), Jon può in tal modo suonarli interamente con effetto chitarra (cfr. ‘Space Truckin’ ) ed essere libero di lanciarsi negli assoli (polifonici o monofonici) senza cambiare gli effetti, il che nel 1972 non era cosa immediata. Per la cronaca, Ken Hensley ha scelto invece di mantenere l’effetto rotante dei Leslie (lo sentiamo particolarmente su ‘July Morning’), il che ha reso gli Uriah Heep una band di hard rock dal suono notevolmente meno granitico, più dolce, in armonia con lo stile quasi progressive che li caratterizza anche attraverso i cori.
Su ‘Made In Japan’ la tastiera è resa benissimo, nei toni squillanti delle parti soliste come nei bassi grevi e nei riff polifonici. Non appare invece molto curato il suono delle pelli di Paice, sui tom maggiori appare cupo mentre i piatti sono equalizzati in modo appena sufficiente, e ciò che alla fine rende la qualità della performance è proprio la tecnica peculiare del batterista, che lavora moltissimo di charleston e piatti (se si fosse trattato di John Bonham una equalizzazione del genere sarebbe stata deleteria). Il motivo per cui l’assolo di ‘The Mule’, assai pregevole dal punto di vista tecnico, non è generalmente menzionato tra i memorabili nella storia del rock sta probabilmente nel suono che risulta un po’ ottuso (mi riferisco alla resa sia della migliore edizione in vinile, la 180 gr., che alla rimasterizzazione USA in CD) e non premia assolutamente il continuo lavoro tom / piatti di Ian Paice. Questa è sicuramente una delle pecche nella registrazione del suono che avevano indotto gli stessi Blackmore e Gillan a non caldeggiare in prima istanza l’uscita dell’album.
Al pari di Jon Lord, anche Roger Glover deve essere soddisfatto di quello che l’album gli restituisce in tema di suono e percezione dello strumento. ‘Machine Head’, e prima ancora ‘Led Zeppelin II’, sono due ottimi esempi di come il suono del basso possa essere posto nel giusto risalto (‘Lemon Song’, ‘Pictures Of Home’) senza coprire innaturalmente le frequenze ad esso non dedicate, ed è comunque un lavoraccio, come sanno quelli tra noi che suonano in sala e bestemmiano sul mixer. Era ancora più difficile dal vivo nel ’72, ed infatti sono molti i live del periodo in cui il bassista a tratti sembra essere andato al bar (‘Tokyo Tapes’ è uno di quelli). Per non interferire con la grancassa ed il rullante, gli speakers del basso erano mantenuti al minimo indispensabile (come numero e come volume) e scommetterei che le casse spia dedicate fossero praticamente mute, il che mi conferma nell’idea che i bassisti d’epoca fossero eroici e molto più bravi di quanto sia generalmente riconosciuto.
L’interplay Lord / Blackmore e la sua risoluzione dal punto di vista sonoro sono comunque l’elemento fondante del suono dei Deep Purple nel 1971-72, e visto che Lord è sistemato in maniera più che soddisfacente resta da vedere cosa succede dalle parti della chitarra. Il capolavoro del Purple sound, soprattutto dal vivo, è proprio lo strumento di Blackmore, e non è neppure la bravura dei fonici, è proprio Ritchie che lavora in modo superbo. Non ha il wah wah di Hendrix e Page, non ha distorsori perché spesso gli gira di arpeggiare, un poco di sustain e di distorsione glielo offrono i Marshall ed il resto lo fanno un compressore e qualche accortezza nell’equalizzazione dal banco mixer (probabilmente un po' di reverbero nelle parti 'classiche' e un pelino di flanger). A questo punto sta tutto nelle dita, amici chitarristi: l’avete capito tutti che il Man In Black è sopraffino e tremendissimo nel tremolo con le dita della mano sinistra, nello stoppare con la mano destra tutte le corde che non devono risuonare (anche nei frequenti swapping), nel regolare intensità e volume con la mano destra prima ancora che con il pedale e nell’evitare i riff bicordi o tricordi allo stretto necessario, tanto c’è Lord che li sostiene. Un suono heavy e pulito, squillante sugli accordi, veloce ma mai accavallato: si permette di suonare Lazy e Child In Time senza cambiare chitarra né effetti, e l’uno è un boogie pulito, l’altro richiede un assolo distorto. Adoro Jimmy Page, ma il controllo del suono da parte di Blackmore è soprannaturale e mai replicato in ambito hard rock.
Arriviamo alla fine ridendo sulle affermazioni di Gillan sulla sua presunta bronchite in quelle tre serate giapponesi, se canta Child In Time in quel modo con la gola rovinata… i fonici gli hanno reso un buon servizio perché il microfono è direzionale e ben direzionato, non entra alcun altro suono e la voce è ben posizionata (il più delle volte sul canale sinistro). Da notare che la Purple Mobile Sound Unit fa quasi tutto il lavoro, la leggendaria perizia nipponica è ancora agli esordi e l’apporto fornito è utile ma non essenziale (basta ascoltare ‘In Concert 1972’ per testare la bravura dei fonici EMI, anche se registrare in un teatro BBC è un po’ diverso). Le punte nella resa sonora di ‘Made In Japan’ sono probabilmente ‘Smoke On The Water’, ‘Strange Kind Of Woman’ e ‘Space Truckin’ (quest’ultima in particolar modo, perché il groove finale rischiava di essere confuso) ma tutto l’album si mantiene su una resa sonora più che soddisfacente, un po’ carente sulle frequenze alte ma era un problema costante nel 1972. Il merito principale, come abbiamo visto, è della band medesima, che suona al proprio massimo avendo però cura di separare le parti e distinguere gli ambiti, nessuno sale sopra gli altri e la resa complessiva ne guadagna inestimabilmente. La prova conclusiva è nei bis che i Deep Purple esausti concessero alla fine di ciascuna serata, tutti suonati senza più lucidità e con palpabile stanchezza. Con la sola eccezione di una Black Night esaltante, quella che finì su singolo, i Purple sembrano ubriachi e sbandano vistosamente, e ne risente terribilmente anche il suono, confuso e accavallato al punto tale che sembra di sentire un altro complesso. Avevano le loro ottime ragioni, direi.
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