"Nella pietà che non cede al rancore/Madre ho imparato l'amore"

("Il testamento di Tito", Fabrizio De Andrè)

“C’è n’è ancora un po’”

La prima impressione fu questa, una gradita appendice, ...ora che ci penso oggi.

A ben vedere però quello che ricordo di più del secondo volume del live di Fabrizio De Andrè con la PFM è l’impressione di b-side che mi fecero i primi ascolti dei suoi brani.

Non c’era la carica dirompente del primo volume, data dall’impressione che quei brani, conosciuti, almeno per me, solo qualche mese prima, li conoscessi in verità da sempre.

E la responsabilità non era della PFM, anche questa volta artefice di arrangiamenti fantasiosi come non mai, sopratutto se (e lo avrei capito qualche anno dopo) confrontati agli originali.

Erano brani, quelli del secondo volume, “di nicchia” e ne avevano il sapore.

Un ruscello che scorre nel bosco se confrontato alla potenza fluviale da canzone popolare del vol 1.

Se mai un bosco oscuro del tipo di quello in cui ha inizio la storia, di perdizione e redenzione, raccontata in Sally in cui, alle classiche tematiche di Faber, si mescolano, a livello poetico, echi di Leonard Cohen e di William Butler Yeats (il “pesciolino d’oro”).

Ecco, parlando di Yeats, forse può essere questa una chiave di lettura delle canzoni in questo secondo album, rispetto al precedente: esoterismo.

Esoteriche nel testo “Sally” e “Rimini” (appartenenti, insieme alla dylaniana “Avventura a Durango”, al suo ultimo periodo, quello con Bubola).

Esoterici nell’argomento trattato i due brani tratti da quello che è forse l’album più intellettuale e “per pochi” di Faber, “La Buona Novella” (ispirato ai Vangeli gnostici).

Ma proprio in una di queste canzoni Il testamento di Tito”, si trova probabilmente uno degli autoritratti ideali più riusciti ed espliciti del personaggio De Andrè e l’esposizione della sua filosofia.

I suoi contro-comandamenti per un nuovo umanesimo.

Una invettiva contro la figura del padre, qui trasfigurato nel padre divino, ma probabilmente, conoscendo la storia, simbolo di un padre molto più terreno e vicino alla sua esperienza di vita, un padre con cui avrebbe fatto pace forse solo con le canzoni del suo ultimo album, poco prima di morire.

“Verranno a chiederti del nostro amore” e “Via del campo” sono un altro discorso, di esoterico non hanno molto, ma parlano di amore, un amore “politico”, “adulto”, “conformista”, “cerebrale” contrapposto a un amore “infantile”, “ideale” e “puro” al di là delle apparenze e convenzioni.

E sono forse, rispettivamente, l’emblema di ciò da cui ha sempre cercato di fuggire e verso cui dirigersi per tutta la sua vita, probabilmente, nei suoi sogni di uomo.

Sicuramente in quelli di artista, e per noi (o almeno, sicuramente per me) è stato un grande regalo.

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