Passano gli anni e quelle frasi ritornano, quei personaggi sedimentano nelle nostre memorie, e ogni tanto ci piace tornare a incontrarli. Ognuno di loro possiede una stagione dei nostri cuori, mi accorgo - ogni volta un po' di più - che vivono in noi, fanno parte delle nostre storie. Sono noi, siamo loro. Vivendo, mescolandoci tra la “gente”, portiamo nel mondo, nei nostri orizzonti più o meno vasti, un verbo che si fa carne nei gesti quotidiani che compiamo, nelle parole che rivolgiamo, nelle sensibilità che facciamo filtrare tra le durezze che ci vorrebbero soffocare.

Il giudice era una presenza ilare tra i compagni di liceo. Il grande membro e il cuore troppo vicino all'impronunciabile pertugio posteriore. Un modello deforme nell'anima, prima che nel corpo. Sembrava impossibile che un poeta dicesse quelle cose: anzi, da adolescenti stava proprio in quelle libertà lessicali il fascino di Faber, il gusto e la ricerca di un significato ulteriore si soffermava in particolare intorno a quei dettagli pruriginosi. Come la puttana di via del Campo, come il Gorilla. A sedici anni sentirsi diversi era in primo luogo capire De André nella sua poesia mescolata allo sterco dell'umanità. Di più, mi sembrava che quella liberazione dai castighi del moralismo fosse tutto ciò di cui avessimo bisogno.

Qualche anno dopo, la libertà e le illusioni dell'universitario trasudavano dalle parole del suonatore Jones. Non capivo bene perché, ma quel flauto e quelle cadenze smuovevano un nervo riposto. Un fruscio di ragazze, un ridere rauco. Chissà, la polvere e la malinconia accompagnavano forse una contraddizione: la tristezza e il vuoto, i campi alle ortiche, di chi è veramente libero, schiavo di nessuno, ma a suo modo servitore della sua stessa libertà, della sua chitarra. “Suonare ti tocca per tutta la vita”.

Nel suo farsi, l'uomo si scopre servo devoto di qualcosa o qualcuno, debitore, invischiato in dipendenze d'ogni sorta, in qualche modo innamorato dei suoi limiti. Il malato di cuore sono io, siamo tutti noi. “Che cosa ti manca per correre al prato?” me lo chiedo ogni volta che non varco una soglia. La vita narrata dagli occhi è tutta quella che evito puntualmente, una volta adulto, conscio di me e in grado ormai di capire, ma non sempre di “riprendere fiato”.

Autori così ci attraversano la vita e vanno assaporati nell'arco di un'intera esistenza. Ogni pezzetto di poesia aspetta il suo momento per dare frutto, quando si riverbera sulle giuste esperienze del nostro vivere. Per anni ho percorso il tragitto tra la collina, il matto e il blasfemo, arrivando poi volentieri alle trame psichedeliche dell'ottico, ma tralasciavo in parte altri momenti.

Ora l'esperienza mi sta insegnando l'empatia nei confronti del medico. Non mi sento più malato di cuore, non ho più paura, ho imparato a riprendere fiato. Questa parte della mia vita si accosta bene alla volontà di “non tradire il bambino per l'uomo”. I miei ciliegi da guarire sono i ragazzi di scuola, in cuore tanta voglia di amare e intorno colleghi che mi spediscono clienti scomodi. Spero di non finire “dottor professor truffatore imbroglione”.

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