"...'L'occhio rivolto verso il Marocco' è un modo di dire polacco quando stai parlando in faccia ad una persona ma, contemporaneamente, si capisce lontano un miglio che la tua attenzione è rivolta altrove. Come quando sei intento in una conversazione con un tuo vecchio amico e, all'improvviso, alle sue spalle vedi passare una bellissima, giovane ragazza con un paio di gambe mozzafiato! L'occhio, inevitabilmente, cadrà li...".

"...Eh sì, il vecchio amico in questione sono i Deep Purple mentre la modella che attira il mio sguardo verso il Marocco è la musica contenuta in questo mio disco solista. Il Marocco, insomma, è il mio sogno. La mia fuga dal quotidiano..."


(Ian Gillan su "One Eye To Morocco")

 

A distanza di oltre dieci anni dall'ultimo "Dreamcatcher" il vocalist londinese torna con un nuovo disco solista che non potrebbe essere più lontano dal classico Purple-sound, come dichiara nello spezzone di un'intervista pubblicata su milanoweb.com sopra riportato. Niente hard rock dunque, in favore di armonie blues, soul, folk e perfino etniche per un lavoro dal gustoso sapore retrò, ideato e scritto nella primavera del 2008 in una delle rare pause dal neverendig tour al quale da diversi anni ci stanno abituando i ragazzi in porpora.

L'instancabile Ian crea così un LP ballabile, intenso ed esotico, in cui mancano gli interminabili assoli di chitarra o tastiere tipici della sua band madre mentre risaltano gli strumenti a fiato (tromba, armonica e uno straordinario sassofono suonato da Joe Mennonna) e le percussioni affidate ad Howard Wilson. Per rendere meglio il concept del disco il leader dei Deep Purple ha poi dichiarato che se andasse in tour col disco (per ora non se ne farà niente, i Purple prima di tutto) creerebbe uno show a metà tra uno concerto rock e una danza del ventre, accompagnato oltre che dalla sua band da coristi e ballerine.

Il viaggio inizia con "One Eye To Morocco", una sorta di alba in musica in una lontana terra africana, che scorre col suo incedere sognante recitando
"All day / Sitting alone in my room / Waiting for no-one to call me / Lost in a dream of my own", per poi proseguire con la rockeggiante "No Lotion For That", scritta come la maggior parte delle canzoni da Gillan in compagnia di Steve Morris, chitarrista anche nelle precendenti uscite soliste del nostro. "Don't Stop" è uno splendido motivo latineggiante, mentre "Change My Ways" (basata sull'armonica e sulla voce del cantante), "Better Days" e "Ultimate Groove" (le ultime due scritte dall'altro chitarrista, Michael Lee Jackson)  ci portano dalle parti del blues.

"Texas State Of Mind" è un buon rock'n'roll che però risulta essere il momento più scialbo del disco assieme alla ripetitiva "Deal With It", in cui compare perfino una batteria elettronica. Ottime sono ancora la orientaleggiante "Girl Goes To Show" (uno dei picchi più alti dell'intera opera) e "The Sky Is Falling", ma è forse con la doppietta finale che si raggiunge il vertice dell'album: "It Would Be Nice" e soprattutto "Always The Traveller" sono due eccellenti composizioni che chiudono una seconda facciata forse ancor migliore della prima. Nello specifico "Always The Traveller" fa da contraltare all'iniziale title track, riprendendone l'aria sognante con ancor maggior phatos, dando vita ad una splendida ballad in cui è un ispiratissimo sax a disegnare le note più suggestive.

Caratteristiche fondamentali del long playing sono le atmosfere etniche che pervadono in misura più o meno evidente tutte le composizioni e lyrics di primo livello (contrariamente a quanto il nostro ci ha abituato soprattutto negli episodi di purpleiana memoria) raccontate da una voce suadente che non cerca di emulare i fasti del passato ma che saggiamente punta sull'ancora invidiabile timbrica.

Se volete farvi avvolgere da un turbine di suoni caldi e variegati questo disco fa al caso vostro...

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