Tra le corde delle elettriche (che sono poi una e fidata, ma sembra un intero coro) svapora la polvere. Proprio lei, sempre lei. Ha fatto una visitina ai Kansas, ha danzato con Bandini, tempo fa, e adesso impegna in una giga scozzese il mefistofelico one-leg standing pied piper di quella vecchia leggenda celtica partita da un agronomo col nome che in fondo suonava bene. Proprio bene.

1991. I Jethro Tull del tour di Catfish Rising sono arrochiti, sbiaditi e metropolitani, ma nell'istrionica dimensione live spaccano tuttora potentemente il culo ai passeri. Si parte con un accenno a tempi diversi, quelli del Menestrello. Sono ancora qui per raccontarvi storie, per commuovervi e prendervi per il culo. Venite a prendermi e mi avrete, sembra dire. E il sordido follettone chiama in suo soccorso Mary la Strabica, la ragazzina-puttanella che nel '71 rubava ai ricchi per darla agli Aqualung. Ce la immaginiamo adesso cellulitica, due cerchi neri intorno agli occhi, sfumacchiante sigari concentrati in un angolo di un brutto bar. Ma cazzo, la cosa funziona ancora, e cazzo se funziona, e cazzo, come funziona. Be', oddio, lo Ian trasforma una strofa in uno strumentale. Be', oddio, molte cose sono cambiate. Tipo la voce. Ma - ma li sentite? Sono i Jethro Tull. E' Ian Scott Anderson. E' Martin Lancelot Barre, l'eroe della chitarra più timido del mondo. E però il riff fulminante di "This Is Not Love" - che sarà pure una gradevole canzoncina hard-flute-rock di poco spessore e quel che volete - toglie qualsiasi possibile dubbio a chi non lo conoscesse. Solito discorso dei passeri.

Poi cambiamo dimensione. "Rocks On The Road" è la tipica gemma nascosta. E dal vivo è una gemma che viene fuori. Una lunga canzone che trasuda polvere, rarefazione, sudore e atmosfera, e dove questo Ian roco e vagamente direstraitsiano degli anni '90 funziona benissimo. E l'intermezzo dal retrogusto jazzato. E le circonvoluzioni del flauto, il flauto famoso e paradossale dalle mille sfumature. Sì, davvero, tutto funziona. Ed ecco che anche gli Heavy Horses dell'ironica campagna inglese trasmigrano quasi in America con mezzo zoccolo. Eppur si muove!

Seguono due episodi minori, ma ben scritti. "Like A Tall Thin Girl", incalzata dal mandolino ossessivo del multistrumentista Ian, è un folk variegato spennellato di elettricità a larghe chiazze. Di "Still Loving You Tonight" è noto il quasi-plagio da Santana (vai a sapere perché invece di vendicarsi direttamente sugli Eagles devono andare a prendersela con quello, che a parte suonare sempre su metà manico della chitarra non gli ha fatto poi niente di male), ma il pezzo ha tiro e si lascia apprezzare.

A sorpresa, e al cardiopalma, parte l'attacco di "Thick As A Brick". E la lacrima dev'esserci stata per forza. E' però una versione, questa, davvero coperta di polvere, affaticata. Bella, sì, ma che fa spendere una seconda lacrima per motivi opposti. Perché non possono non venire in mente i palchi dei '70, e le cose che lì faceva un Anderson capelluto, brillante, contorto, sardonico, sarcastico, straordinario, commovente, colorato, addirittura fotogenico. (Starò esagerando?) Comunque sono loro, accettiamoli anche così impolverati.

E' un altro sobbalzo quello del riff mai dimenticato di "A New Day Yesterday". Un bluesaccio sporco, reso diverso dal sovrapporsi di arrangiamenti e diventato, col tempo, ancora più sporco. Decisamente esaltante. Continui picchi verso l'alto, e tra flauto e chitarra si rischia il deliquio orgasmico. (Starò esagerando? Naaa. Be', li amo e non ne faccio mistero. Accettatemi anche voi, e leviamoci questa polvere di dosso.) A sorpresa, in mezzo e poi ritorno, ecco l'immancabile "Bourèe". Grugniti, smorfie, urletti, spettacolo e bella, bellissima musica. (Appunto, li amo.)

Una curiosa "Blues Jam", momento di rara delizia strumentale che accenna con la coda dell'occhio temi già conosciuti e sentiti (forse anche in qualche vita precedente), serve a introdurre l'ultimo atto. Che è "Jump Start", misconosciuto quadretto fumoso da "Crest Of A Knave". Finale inconsueto per un live. Già bella alle origini, guadagna parecchio. E l'aggettivazione rimane quella. Rocume, polverosità, bar di periferia nel cui arredamento complessivo non starebbe male qualche procace sorella gemella della Maria la Strabica invecchiata evocata righe sopra - atmosfera crepuscolare e terribilmente affascinante. E una coda che non può non spingere ad insistere di cuore su quel concetto dei passeri e i loro culi.

L'impressione rimane quella lei pure. Cerchi di lavarti via la polvere dagli occhi, ma agli angoli degli occhi si deposita, stuzzica le sacche lacrimali appena appena. Riporta lampi di già vissuto. Che non torna, no. Mai. Ma c'è del bello anche nelle voci raschiate, nella decadenza delle cose belle, nella polvere che alla fin fine è una cosa che, col vento, si muove.

Carico i commenti... con calma