Alle volte ci si dimentica che l’arte è sì tecnica, sì innovazione, ma è soprattutto emozione.

“The Empyrean”, secondo il suo creatore, è un album che va ascoltato in una stanza buia, distesi, possibilmente durante l’ebbrezza stupefacente di qualche allucinogeno.

È incredibile quanto la musica possa cambiare l’atmosfera e la percezione di ciò che ci circonda, e credo che poche opere abbiano la capacità di farlo quanto quest’album. La potenza dei suoni trasporta la mente in un altro mondo, già a partire dalla discretamente lunga suite di apertura “Before the Beginning” dove, su di un ritmo costante, la chitarra stride ed urla per otto minuti, ricordandoci perché Frusciante sia annoverato tra i migliori chitarristi della sua generazione.

L’opera, come si può evincere dal titolo, tratta del divino, e si configura nella forma di un concept album, nel quale John dà sfogo ad ogni tipo di pulsione musicale. La decima fatica del chitarrista, registrata tra il 2006 e il 2008, in quello che fu uno dei periodi più stressanti della carriera dei Red Hot, è, a mio parere, il suo lavoro più maturo e completo, sebbene manchino le rozze tracce deliranti di “Niandra LaDes” (il quale però era a sua volta influenzato da un contesto extramusicale molto diverso nella vita di Frusciante). Quello che invece non manca, già in quest’album, è un beat elettronico alla base di “Dark/Light”; presagio della futura inclinazione musicale del nostro, la quale perdura tutt’oggi.

Il pezzo si divide in due parti: “Dark” e “Light” appunto. Degni di nota sono l’organo, talvolta ecclesiastico, che torna successivamente anche in “Heaven”, e il giro di basso, di “Light”, che tuttavia, per come la vedo io, si trascina eccessivamente, soprattutto alla luce della sua ripetitività.

Nel suo personale Empireo Frusciante fa faville anche per quanto riguarda il cantato, che va dagli aspri urli di “Unreachable” e di “Heaven” fino al tepore sostenuto dagli archi di “One More of Me”; passando dai sussurri di “After the Ending”, che parlano a tutti, ma sembrano parlare solo a te.

L’album si accompagna senza eccessivi sussulti fino a “Central”, il pezzo migliore dell’opera, dove chitarre e percussioni incombono su un cantato energico e distorto, in un saliscendi che vede entrare in gioco anche qui il violino, prima che l’ultimo climax, guidato da basso e batteria, spiani la strada all’assolo di chitarra. Questo a sua volta viene prima accompagnato e dopo sovrastato dalla voce, per poi condividere il palco con tutti gli strumenti già impiegati, in un’esplosione di suono che in un continuo inseguimento lascia infine spazio a un filo di violino, quasi sottovoce.

Lo stesso violino si rende poi protagonista di “One More of Me”, assieme al resto del quartetto, e crea un tappeto vellutato sul quale Frusciante prima sfoggia un caldo cantato alla Mario Biondi, e poi rompe la quiete e scatena la tempesta cacciando un urlo alla Robert Plant.

Si potrebbe passare il tempo ad analizzare ogni singola traccia dell'album, ma dubito veramente che si riuscirebbe a rendergli onore a parole. Il disco colma e svuota, appesantisce e alleggerisce, deprime e solleva, in un concitato incalzare dove il singolo pezzo perde significato a favore dell’opera tutta; la mera descrizione del connubio di strumenti non è capace di trasmettere il viaggio che la potenza di “The Empyrean” inizia e conclude nell’animo dell’ascoltatore.

Spero che qualcuno, se ispirato da questa recensione, ascolti l’album (magari seguendo per filo e per segno le istruzioni, al contrario mio), e possa scoprire l’ecletticità di un musicista sanguigno che sa parlare al profondo di ciascuno di noi, senza nemmeno dover usare parole.

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